“Le notti della peste”, edito in Italia da Einaudi nel 2022, è l’ultimo romanzo dello scrittore turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura nel 2006.
In ambito letterario, se si nomina la peste, non si può non pensare innanzi tutto ad Albert Camus, col suo romanzo omonimo, e a Daniel Defoe, autore del “Diario dell’anno della peste”; e non si può tacere di Alessandro Manzoni, che tratta ampiamente l’argomento nel suo “I Promessi Sposi”, anche se l’epidemia non è il tema centrale della narrazione.
Si inserisce in questa tradizione letteraria Orhan Pamuk, col suo “Le notti della peste”, romanzo sontuoso e ipnotico, che, seguendo il filo conduttore del morbo, della sua diffusione e dei tentativi di controllo del contagio, riesce a tenere insieme storia e allegoria, sogno e realtà, amori e guerre, paura e potere, modernità e tradizione, fede e ragione.
Ambientato nell’immaginaria isola di Mingher, situata da qualche parte del Mediterraneo orientale fra Creta e Cipro, lungo la rotta tra Istanbul e Alessandria d’Egitto, durante un’epidemia di peste nel 1901, il romanzo prende avvio dal classico espediente, dai precedenti illustri, del manoscritto ritrovato.
Nella Prefazione, infatti, la narratrice Mina di Mingher, discendente della dinastia ottomana e addottorata in storia a Cambridge, si presenta come la curatrice della corrispondenza inviata dalla principessa Pakize, di cui è la bisnipote, alla sorella maggiore Hatice, entrambe figlie del sultano deposto Murad, nel periodo compreso tra il 1901 e il 1913.
Ma quella che doveva essere una semplice introduzione all’edizione delle lettere, si è trasformata nel «libro che state per leggere», poiché la narratrice si è infatti «resa conto che le decisioni prese dai protagonisti di quel breve ma drammatico periodo non potevano essere comprese solo con il metodo storico, ma richiedevano l’arte del romanzo. Così ho deciso di unire le due cose».
La vicenda narrata emerge dunque dalla lunga serie di lettere inviate dalla immaginaria principessa Pakize alla sorella, dal suo avventuroso soggiorno nell’isola di Mingher, fresca di nozze con il principe consorte Nuri Bey, medico affermato. Ai novelli sposi è stata affidata dal sultano la missione di indagare sul misterioso omicidio del dottor Bonkowsky, chimico di fama internazionale, appena arrivato sull’isola in qualità di commissario sanitario.
Fin da subito l’invenzione letteraria si mescola al vero, evocando figure realmente esistite, dallo stesso Bonkowsky, grande scienziato dell’epoca, al sultano Abdul Hamid e a suo fratello Murad, di cui ha usurpato il trono, imprigionandolo per anni, con tutta la famiglia, in un palazzo in cui è dunque da sempre vissuta l’immaginaria principessa Pakize, sua figlia, fino al matrimonio; e realmente esistita è anche Hatice, figlia di Murad, la destinataria delle lettere immaginarie.
L’indagine sul caso Bonkowsky e, in generale, il fronteggiamento del contagio e della tensione sociale che ne consegue, avvengono lungo due binari distinti, che simboleggiano le diverse culture che convivono, non senza frizioni, nell’isola: il dottor Nuri si muove alla maniera di Sherlock Holmes, che sa molto apprezzato dal sultano, raccogliendo indizi per individuare il colpevole; il governatore Sami, invece, diffidente rispetto ai metodi occidentali e scettico sulla natura stessa del morbo, pensa si debba prima immaginare un colpevole e poi trovare le prove, anche a costo di pestaggi e torture.
Sami sospetta occulte cospirazioni straniere, mentre Nuri gira per le strade, entra nelle case e negli ospedali, allevia per quanto può le sofferenze dei malati, osserva e ascolta. E la sera si confida con la moglie Pakize, di nuovo relegata in un palazzo, ma attenta a osservare ciò che succede intorno, per quanto soltanto dalla sua finestra.
Il metodo alla Sherlock Holmes simboleggia la mentalità occidentale, la preminenza della ragione, il procedere seguendo le evidenze dei fatti, mentre è diffuso, nell’isola, l’atteggiamento fatalista proprio della cultura orientale, legato alla fede e a credenze popolari che sfiorano la superstizione, ma hanno la virtù rassicurante delle tradizioni.
Il dilagare della peste fa emergere tutto ciò che prima ribolliva sotto traccia, esasperando tensioni e conflitti che sconvolgono la vita sociale nello scontro tra credenze religiose e convinzioni scientifiche, autorità locali e imperiali, confraternite musulmane e congregazione greco-ortodossa, circa le misure da adottare di fronte al moltiplicarsi dei contagi e dei morti.
Mentre aumentano le violenze, gli arresti, le quarantene, i tentativi di fuga dall’isola, nel chiuso delle stanze del governo locale si dilungano gli incontri inconcludenti tra amministratori, burocrati, militari, consoli stranieri, medici e sanitari in cerca di soluzioni politiche e diplomatiche alla situazione, nella diffusa ricerca di un potere cui affidarsi, per difendersi dalla paura dell’insicurezza sanitaria e dell’incombente disordine sociale.
A segnare il corso del racconto, saranno due eventi cruciali: il cosiddetto colpo del telegrafo, messo a segno nell’ufficio postale, dove un giovane maggiore dell’esercito taglia tutti i collegamenti dell’isola con l’esterno, e il successivo colpo di stato del governatore, già destinato ad altro incarico, che, suo malgrado, proclama l’indipendenza di Mingher, fra le convulse traversie di un vuoto di potere che proprio la principessa Pakize sarà chiamata a coprire, seppur brevemente.
L’indipendenza è tuttavia il frutto di un caotico tafferuglio che la narrazione popolare trasforma in rivoluzione, oltrepassando di molto le intenzioni dei suoi stessi autori, e il destino degli eroi di quei fatti è segnato, anche se resterà imperituro nella costruzione del mito fondativo della nazione mingheriana che, qui come in altre parti del mondo, ha bisogno di nobilitare la propria storia, a consacrazione di un potere che si annuncia da subito nazionalista e orientato verso future derive autoritarie.
La peste, intanto, è sempre lì, si impone, entra ovunque e non risparmia nessuno. Le credenze popolari e la religione si mescolano e si scontrano con la medicina e la scienza, le proteste dilagano e quella società multiculturale non sarà più come prima.
Pamuk ci trasporta tra sultani e pascià, burocrati e principesse, al tramonto di un Impero ottomano scosso da un’epidemia nera, ma è come se quelle vicende parlassero di noi, dei regimi autoritari e delle nostre democrazie fragili, della precarietà di certi equilibri sociali quando soffia forte il vento dell’insicurezza e della paura.
“Le notti della peste” esce in un momento storico perfettamente calzante, in quanto concomitante con gli ultimi strascichi della pandemia da Covid-19 esplosa nel 2020, e tuttavia l’autore ha negato di aver tratto ispirazione dall’attualità, risalendo la genesi del romanzo a un’epoca di diversi anni precedente. Comunque sia, il libro di Pamuk offre ai lettori una metafora potente della pandemia che ci ha colpito, con tutto il suo corollario di tensioni sociali, culturali e internazionali, con tutto il peso delle riflessioni sulla fragilità delle nostre sicurezze.
In effetti, l’isola di Mingher è il punto di partenza di un’allegoria che ci fa intravedere la paura del declino mortale dell’impero ottomano, il «grande malato d’Europa», metafora della crisi della nostra civiltà, fra i giochi delle grandi potenze esterne, e la disgregazione interna per le crepe ormai profonde che rendono fragili le comunità.
“Le notti della peste”, come tutti i romanzi ponderosi e complessi, richiede, a mio avviso, per affrontarne la lettura, la giusta diposizione d’animo, ovvero l’inclinazione a lasciarsi lentamente risucchiare da una narrazione sapiente e ricca di sfaccettature, che non è lineare svolgimento della trama, ma tiene insieme piani diversi e, pur nella cornice del romanzo storico, in realtà coinvolge il lettore in prospettive e punti di vista divergenti.
Nella scrittura, infatti, si alternano momenti drammatici e suggestioni fiabesche, e i personaggi sono colti sia nella loro dimensione pubblica sia in quella privata, con le loro ambizioni e i loro amori, con le loro credenze e le loro passioni. Sullo sfondo, la paura della morte, presenza implicita e costante, mai indagata direttamente, ma sempre presupposta.
Le scene più toccanti lasciano il posto a informazioni su fatti e cifre, sulle istituzioni governative, su precedenti vicende storiche, creando un’alternanza tra pagine che richiamano la cronaca e pagine che hanno invece la dimensione del sogno. C’è una traccia onirica che attraversa il romanzo, e si intreccia a quella storica, senza che l’una prevalga sull’altra, connotando la narrazione con un’impronta poetica che rende ipnotica la lettura.
Il paesaggio di Mingher è misterioso e ammaliante, come circonfuso da un alone di magia e misterioso è anche il tempo della vicenda, che pare sospeso e astratto, nonostante i continui rimandi a dati di realtà. E il sogno sottrae la vicenda alla sua singolarità, rendendola più ampiamente simbolica. Del resto, il libro è un romanzo storico solo nella finzione.
I possibili livelli di lettura sono più d’uno, essendo, “Le notti della peste”, un libro che unisce al suo interno le caratteristiche del romanzo storico, quelle del poliziesco e quelle del romanzo allegorico; il tutto sullo sfondo di una impalcatura narrativa tipica dei grandi romanzi sociali. La dimensione onirica, quella che trovo più coinvolgente, sfumando i contorni della realtà, potenzia il significato universale. E in fondo è proprio questa la magia della letteratura.
La capacità di condurre il racconto come perfettamente realistico eppure in tutto simile a una fiaba, così come l’abilità di tenere insieme la drammaticità della situazione narrata con la leggerezza e talvolta l’ironia di certe pagine, rappresenta per me il maggior fascino di questo romanzo, in grado di avvincere il lettore con un andamento ipnotico che non conosce cadute, con una sola eccezione.
L’ultimo, lunghissimo capitolo, l’unico dotato di un titolo proprio (“Molti anni dopo”), vede la presunta narratrice Mina di Mingher, che si era presentata nella Prefazione, chiudere il cerchio raccontando di sé, dei rapporti con la famiglia e la bisnonna Pakize, dell’impronta che Mingher, con la sua lingua e la sua cultura, ha lasciato nella sua vita: una cinquantina di pagine di vera noia, un appesantimento nella lettura e un bisogno di agganciare la vicenda a una realtà storica, pur sempre inventata, di cui a mio avviso non c’era alcuna esigenza e che non trova riscatto neppure nell’allegoria della favola tridimensionale, per quanto azzeccata, ovvero la riproduzione in cartone di Mingher che il bisnonno regala a Mina bambina.
“Le notti della peste” è certamente una lettura impegnativa, non solo per le sue settecento pagine, ma anche perché ci trasporta in un mondo molto lontano da noi, di cui ci fa conoscere, con ricchezza di particolari quotidiani, la mentalità e i costumi, cambiando i piani di lettura e i punti di vista della narrazione. La trama, inoltre, non è che un filo conduttore, che guida il lettore in un labirinto di allegorie che parlano di noi, delle nostre paure, dei nostri bisogni, del nostro oggi. Un testo per il quale, forse più che per altri, vale il principio del Kairos, ovvero il tempo giusto, per ogni lettore, per incontrare un certo libro.
Dopo un inizio che confesso un po’ faticoso, io ne sono rimasta letteralmente coinvolta, lentamente ma inesorabilmente, con l’unico rammarico, come ho già detto, della conclusione. Avrei preferito che la storia si chiudesse con le lacrime di Pakize, mentre lei e suo marito, il principe consorte Nuri, si allontanano per sempre, nella notte, dall’amata isola di Mingher, sulla stessa nave che li aveva portati lì pochi mesi prima, riprendendo quello stesso viaggio, quasi che il loro soggiorno non fosse stato che un sogno.
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