“Oliva Denaro” di Viola Ardone, è pubblicato da Einaudi nel 2021. La trama è liberamente tratta da un drammatico fatto di cronaca che segnò, negli anni Sessanta del Novecento, un momento di crescita civile del nostro paese e un passo sul difficile cammino dell’emancipazione delle donne italiane.
La vicenda a cui si ispira è quella di Franca Viola, giovane siciliana che, per la prima volta, nel 1965, pubblicamente rifiutò il matrimonio riparatore con il suo rapitore e stupratore, avviando finalmente un dibattito che portò, più di quindici anni dopo, all’abrogazione dell’articolo 544 del Codice Penale, che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale, anche nei confronti di minorenne, e degli eventuali effetti penali in caso di già intervenuta condanna, qualora tra l’accusato e la persona offesa fosse contratto matrimonio.
L’impianto normativo era in linea con la mentalità del tempo, che in sostanza addossava alla vittima le peggiori conseguenze della violenza, ovvero la pubblica esecrazione, estesa a tutta la sua famiglia, l’emarginazione sociale, l’impossibilità di fatto di intraprendere e intrattenere normali relazioni con l’altro sesso, in quanto donna disonorata; il matrimonio riparatore ripristinava invece tale presunto onore perduto.
Si tratta di una norma patriarcale risalente addirittura alla Bibbia:
«L’uomo che è giaciuto con lei darà al padre di lei cinquanta sicli d’argento; ella sarà sua moglie, per il fatto che egli l’ha disonorata, e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita». (Deuteronomio, 22, 22-29).
Come se non bastasse, era umiliante opinione comune che detta legge fosse in realtà a beneficio proprio della donna, poiché, obbligando di fatto l’uomo che l’avesse violentata a sposarla, scoraggiava il delinquente, una volta toltosi il capriccio, dal defilarsi sottraendosi alla propria responsabilità. Come se il problema fosse quello.
S’è dovuto attendere il 1981 perché quest’infamia fosse eliminata dal nostro ordinamento con l’abrogazione del citato articolo 544, e addirittura il 1996 perché lo stupro diventasse un reato contro la persona e, se qualcuno, stupito, si chiedesse cos’altro mai potesse essere, sappia che sia il Codice penale Zanardelli (1889), il primo dell’Italia unita, sia il successivo Codice penale Rocco, entrato in vigore nel 1930, in pieno periodo fascista, lo classificava come reato contro la morale pubblica e il buon costume. E c’è ancora chi trova fuori luogo citare l’imperituro patriarcato. Mah.
Veniamo al libro. È il 1960 e siamo in un immaginario paesino della Sicilia; Oliva Denaro ha quindici anni e sa già benissimo che «la femmina è una brocca, chi la rompe se la piglia»; figlia del siciliano Salvo e della calabrese Amalia, è intelligente, sveglia, ama raccogliere rane e lumache col padre, anche se è un lavoro da maschio, e adora la scuola e le parole difficili.
Non le sfugge il sopruso patito dalla sorella più grande, Fortunata, andata sposa, già incinta in seguito alla classica “fuitina”, al rampollo di una ricca famiglia del luogo, che la massacra di botte fino a farla abortire, per poi rinchiuderla in casa impedendole di incontrare chiunque, compresi genitori e fratelli, mentre lui si dà alla bella vita sotto gli occhi di tutti. E ugualmente vorrebbe prendere le difese della maestra Rosaria, che adora, stigmatizzata come poco di buono e cacciata da scuola per le sue idee moderne.
Ma Oliva è nata e cresciuta in quel mondo, l’ha assorbito, ne fa parte, non è una rivoluzionaria né un’eroina; ama la madre, che, coi suoi ferrei principi e la sottomissione cieca alle tradizioni, la educa al rispetto delle mille regole che dovrebbero salvarla dal giudizio sociale che può emarginare e persino uccidere; e ama il padre, uomo di poche parole, non autoritario come la moglie vorrebbe, anzi piuttosto scettico sul violento sistema di leggi non scritte che regola la vita sociale del tempo, e capace di coltivare l’intelligenza del dubbio e la gentilezza dei modi, riassunti nel suo mite e ripetuto «Non lo preferisco», che suona più forte di qualsiasi no. (E ricorda da vicino il «preferirei di no» di “Bartleby lo scrivano” di Herman Melville).
Di fronte al sopruso fisico e morale, il no di Oliva segnerà la storia sua e della sua famiglia che, fatto non scontato, in un frangente così drammatico, saprà starle vicino, mentre quell’esperienza tragica la aprirà a una sconosciuta sensibilità civile e a un mondo nuovo, dove il lettore la ritroverà, vent’anni dopo, proprio in occasione dell’abolizione di quell’articolo del Codice Penale che ammetteva il matrimonio riparatore quale causa di estinzione del reato di violenza carnale.
Oliva Denaro è un romanzo promettente, per il tema che racconta, per la capacità di ricostruire, attraverso lo sguardo di una ragazzina, un contesto arcaico e crudele, radicato e opprimente, e, soprattutto, per l’assenza di retorica edificante che non lo deforma in un manifesto femminista. La protagonista è vivace e acuta, e nelle prime pagine è impossibile non empatizzare con lei; tuttavia, non tutta l’opera gode della stessa felicità narrativa.
La prima parte è una lettura di piacevole freschezza, capace di dipingere con grazia non solo l’affresco di un mondo, di un’epoca e dei suoi interpreti, ma soprattutto il percorso di formazione e crescita della protagonista, che, attraverso le sue osservazioni e i suoi pensieri, con ingenuità e intelligenza, ci accompagna alla scoperta dell’universo femminile di quel tempo, con gli stupori e le paure, le amicizie e gli affetti, l’amore per lo studio, il rapporto duro ma profondo con la madre, la silenziosa sintonia con il padre, le regole sociali pervasive e l’idea di un futuro già scritto da altri per lei.
Oliva rimane però l’unica figura così sfaccettata e a tutto tondo; gli altri personaggi, nel confronto, risultano più stereotipati e monodimensionali, compreso il padre, del quale, lo si capisce già dalle prime righe, dobbiamo per forza innamorarci, in quanto maschio sensibile e moderno, amatissimo dalla figlia e piuttosto alieno dalla figura classica del pater familias del tempo.
Dal racconto del sequestro e dell’abuso, tuttavia, la narrazione perde smalto e si appesantisce; certo è una bella sfida tradurre in letteratura un racconto di violenza carnale in prima persona, a maggior ragione dovendo impiegare il linguaggio di Oliva e la sua visione del mondo, lontana anni luce dalla nostra. Trovo però che questa sfida non sia superata: mentre, nella prima parte del libro, Oliva coinvolge il lettore con i suoi sforzi, tra candore e tenacia, per trovare il suo posto nel mondo, nella seconda parte la narrazione perde mordente fino a slabbrarsi quando il racconto si fa sofferenza e pena, indignazione e rifiuto.
È come se la capacità di osservazione e di giudizio della protagonista, che ci ha accompagnato con piacevole arguzia all’inizio del romanzo, si ottundesse e rimanesse annichilita dopo l’evento drammatico della violenza, nell’incapacità di tradurre in parole il travaglio interiore.
Se, da un punto di vista psicologico, l’intorpidimento e l’annebbiamento dei sensi e della volontà possono ben essere l’esito di un vissuto di sopraffazione e di straniante violenza, la narrazione tuttavia ne risente con un appesantimento del ritmo che rispecchia un’oggettiva difficoltà a trovare un registro adatto per raccontare l’orrore della vittima e l’abominio del sopruso.
Oliva appare desensibilizzata e perde la freschezza e la precisione dello sguardo, che rendevano acuto e ingenuo a un tempo il suo narrare; sembra trascinare un’esistenza che non le appartiene più e in questo vuoto che ha dentro e fuori, in questo opprimente senso di impotenza, anche il rifiuto del matrimonio riparatore appare come un gesto di rassegnazione e di sottrazione, più che di ribellione e affermazione di sé, come preferiremmo pensare.
L’ultima parte del romanzo è infine segnata da capitoli che alternano, a quello della protagonista, il punto di vista del padre, quasi a voler creare una sorta di dialogo fra i due personaggi; è una scelta strutturale artificiosa, appesantita dal monologo interiore del padre, dal vago sapore didascalico.
Concludendo, per me, un romanzo a metà, che promette molto ma mantiene solo in parte, con una prima frazione godibile e una seconda decisamente meno felice. Certamente apprezzabile lo sforzo di dare voce alle tante donne prevaricate della nostra storia passata e presente, e tuttavia la trama non presenta elementi originali rispetto al fatto di cronaca a cui si ispira e l’ambientazione, così come la definizione dei personaggi, non sono privi di stereotipi e luoghi comuni; l’effetto d’insieme è quello di una storia già conosciuta, il cui nocciolo drammatico risulta trattato con garbata banalità.
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