Il giardino dei Finzi-Contini, di Giorgio Bassani, pubblicato nel 1962, si sviluppa come una lunga retrospettiva, in cui l’io narrante, sull’onda di suggestioni di morte e memoria, evocate dalla visita a una necropoli etrusca, racconta la sua frequentazione, in giovane età, della ricchissima famiglia ebrea dei Finzi-Contini e, in particolare dei due fratelli Alberto e Micol, suoi coetanei, nel decennio antecedente la seconda guerra mondiale. Bassani riesce magistralmente a fondere i tentennamenti privati del giovane narratore, innamorato segretamente dell’enigmatica e sfuggente Micol, con la Storia che incombe sul futuro della famiglia con le sue pagine più nere, pronta a spazzare via giovinezza, desideri, spensieratezza e slanci. Il richiamo alle buie vicende storiche dell’epoca rappresenta forse la lettura più ovvia, ma non impedisce al romanzo di svilupparsi anche come racconto di formazione, che parla di giovinezza, di amicizia e di amore. Tuttavia, la chiave di lettura che preferisco e mi pare senza tempo, si nasconde nel titolo e attraversa il libro specchiandosi in una scrittura che definirei elegiaca; è la nostalgia di un paradiso perduto di cui il giardino rappresenta la perfetta metafora: mentre fuori imperversa la volgare brutalità delle leggi razziali, all’interno della grande villa, c’è il parco alberato, il campo da tennis, l’immensa biblioteca, simboli di bellezza e civiltà, destinati a essere distrutti. E così è per Micol, affascinante e inaccessibile, che vive dentro un muro di cinta, incarnazione di ciò che è desiderabile e tale è destinato a restare. Il giardino dei Finzi-Contini appare, in questa prospettiva, come la metafora di tutte le esperienze di lettura, che attivano, nel lettore, il desiderio inesauribile di un mondo seducente di bellezza che non si può veramente abitare.
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