Rileggere un classico


“ll Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov, scritto negli anni ’30, ma pubblicato postumo solo negli anni ’60, dopo pesanti interventi censori, ha tutti i diritti di essere considerato un classico, sebbene inestricabilmente legato a una precisa e drammatica situazione storico-sociale e culturale: la Russia di Stalin. Un libro che racconta di un diavolo che compie il bene (anche se non sempre), di un Ponzio Pilato con un cane di nome Bangà che ha paura dei temporali, di gatti che salgono sul tram e donne che, grazie a una crema, diventano streghe e volano nude nei cieli di Mosca. “Il Maestro e Margherita” racconta due diverse storie: la prima ambientata a Mosca negli anni ‘30, la seconda ambientata a Gerusalemme, ai tempi della Passione di Cristo. È un’opera in cui si alternano più piani narrativi: quello della fantasmagoria e quello del romanzo storico, quello dell’asfissiante realtà contemporanea e quello che guarda all’indietro, incentrato sul ruolo e sui dubbi di Ponzio Pilato intorno alla crocefissione di Gesù, perché in ogni romanzo russo il discorso su Dio non può mancare. Il risentimento e la mancanza di libertà d’espressione, così contingenti, così legati alla situazione dell’uomo Bulgakov, così apparentemente estranei alla creazione letteraria, dilagano nel romanzo sottoforma di lievito e d’ispirazione, liberandolo dalle pastoie di un più banale autobiografismo. Certo, parlare di irredimibile pessimismo, di disperante e disperata concezione della realtà a proposito di un’opera a tratti comica, varia, divertente, multicolore, teatrale, frizzante, può sembrare contraddittorio. Eppure, sul piano dell’orizzonte ideologico entro cui si inscrive, non è da dubitare che il romanzo vada letto in quella prospettiva, e, tuttavia, il fatto stesso di essere stato scritto rappresenta di per sé una speranza, la convinzione di un risarcimento offerto dalla letteratura contro la realtà. In fondo «i manoscritti non bruciano.»