Siamo in provincia, nel Nord Italia, negli anni Sessanta/Settanta del Novecento. Il protagonista e voce narrante, di cui non conosciamo il nome, è un tipo umano molto comune all’epoca; anche se alla sensibilità attuale appare senza dubbio, nei rapporti familiari di cui racconta, prevaricatore, invadente e dispotico, è in realtà il classico padre e marito tradizionalista del suo tempo, che l’autore mette in scena con un realismo e un’ironia affettuosa, che lo rendono addirittura simpatico al lettore.
Il nostro è un uomo di mezza età tutto casa e bottega, nel senso più stretto della parola, poiché la sua vita si divide in effetti tra il negozio di ferramenta e la casa dove vive con la famiglia, situata al piano superiore dello stesso edificio: possiamo immaginare una di quelle costruzioni, ancora molto diffuse nella provincia del Nord Italia, con l’attività artigianale sulla strada e l’appartamento al piano di sopra, perfetta rappresentazione di una vita dedicata al lavoro.
E infatti. Venuto dal niente, dopo aver passato qualche anno a bottega come garzone, realizza il sogno della vita, una ferramenta tutta sua. A suon di sacrifici e notti in bianco con l’assillo delle preoccupazioni e dei soldi, la ferramenta diventa un’attività di tutto rispetto, ben fornita e con una clientela fissa, anche di un certo livello. La ferramenta dà da mangiare a tutta la famiglia e assorbe la vita del protagonista, che, orgoglioso di ciò che ha realizzato, mette il lavoro davanti a tutto il resto: i tempi della giornata sono scanditi dagli orari del negozio, che non ammettono deroghe o eccezioni, le vacanze non sono nemmeno contemplate perché, si sa, la gente in ferie ad agosto può sempre aver bisogno di viti e chiodi per i lavoretti di casa. Non ha mai un dubbio o un ripensamento sul suo stile di vita, che impone come un fatto naturale a tutta la famiglia; al contrario, si aspetta da moglie e figli la stessa dedizione e la stessa gratitudine nei confronti dell’amata bottega, e pazienza per l’odore ferruginoso che si sente addosso a fine giornata.
Insomma, il lavoro va alla grande, ma la famiglia? La famiglia mica tanto, ma non per la moglie, no, anzi, una brava donna dedita forse un po’ troppo alla prole, ma normale, come tutte le donne. No, il vero problema sono i figli, tre per l’esattezza. Sono grandi ormai, e dovrebbero andare per la loro strada, ma, a quanto pare, la mamma chioccia è sempre pronta a risolvere i loro guai e pretende l’aiuto del marito che non si può mica rifiutare, sono pur sempre figli suoi! Così, non c’è un momento di tranquillità per il nostro protagonista, alle prese con la vita quotidiana, gli ordini, i clienti, le strategie di vendita e i figli che sono un’inesauribile fonte di problemi.
La più grande è l’Alice, che voleva studiare, ma una femmina deve metter su famiglia, va bene lo studio ma i libri non portano il pane in tavola. Un po’ di scuola è ammissibile, per non rimanere proprio ignoranti, ma senza esagerare, e poi il buon uomo lo sa qual è la soluzione: all’Alice bisogna trovarle marito, così da tenerla impegnata e toglierle la fantasia della laurea, che, per il padre, è solo un capriccio. Se vuole dare ripetizioni, può farlo come passatempo. Basta che trovi un marito come si deve e faccia la mamma per guadagnarsi la rispettabilità agli occhi della gente. Da qui i tentativi, alcuni goffi, altri ironici, da parte del protagonista di allontanare “il Maestrino” o “il Tromba”, primi corteggiatori della figlia, l’uno troppo squattrinato, l’altro dalle intenzioni discutibili. Viceversa, ben vengano pretendenti seri, ovvero con un lavoro sicuro, come l’Anselmo, per esempio, che fa il rappresentante di forniture meccaniche. Ma l’Alice non è mica una facile, è maestra, e quando un uomo arriva, forse non è quello giusto. E così, un matrimonio sbagliato la riporta a casa dai genitori, a vivere di rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato, i sogni infranti in una quotidianità che non riesce ad accettare.
Poi c’è l’Alberto che, al contrario della sorella, di libri non vuol saper niente e difatti a scuola è un disastro. Come maschio più grande è il predestinato, perché l’azienda deve restare in famiglia, e così il giovane scapestrato è, prima di tutto, da raddrizzare, e poi, quando il destino di affiancare il padre nella ferramenta sembra finalmente compiuto, si mette di mezzo una ragazza, bella, bellissima e, dopo una cerimonia organizzata in fretta e furia, perché i due giovani hanno fatto il guaio e la sposa non può presentarsi all’altare con il pancione, inizia una nuova vita: grazie al ruolo acquisito di marito e padre, il lavoro in ferramenta gli viene finalmente pagato, ma non regge il confronto con l’offerta di dirigere la concessionaria di auto del suocero e così la famiglia d’origine finisce per apparirgli troppo modesta e l’Alberto se ne allontana, e quasi se ne vergogna.
Terzo e ultimogenito, nato settimino, è Ercole, noto a tutti come l’Ercolino. Magro e piccolo e con una fame insaziabile, sembra un ospite capitato per caso in famiglia, vive letteralmente chiuso in camera, chino sui suoi amati libri, così estranei al genitore. Parla poco e apre bocca solo per mangiare, e mangia tanto, il doppio di ogni porzione, ma non ingrassa, forse il cibo va tutto in intelligenza, come sostiene la madre. Non è il candidato ideale per il lavoro in ferramenta, vuole studiare, ma deve prima riflettere, deve pensare e capire bene cosa vuole fare e così parte, lascia la famiglia per ritrovare sé stesso, come gli ha insegnato il corso di filosofia che nel frattempo sta frequentando.
Scontroso, imperativo, invadente, l’io narrante creato dall’autore, con tutti i suoi difetti, finisce per conquistare il lettore: non riesce a immaginare, per i suoi figli, una vita diversa dalla sua e resta prima meravigliato e poi deluso, scoprendo che i loro sogni non somigliano ai suoi e che, in definitiva, questi figli non sono venuti come si aspettava.
Esperto di ciò che vende, tanto quanto delle strategie per mantenere ottimi rapporti con i clienti e i fornitori, sempre all’insegna dell’onestà e della fiducia reciproca, l’uomo non è però altrettanto abile nel farsi amare dalla sua famiglia. La sua storia, all’apparenza semplice, racconta uno spaccato della società del secolo scorso. Il piglio con cui Vitali scrive è sempre divertente, e anche i momenti più tragici vengono raccontati con un’ironia che, per quanto amara, alleggerisce il racconto.
Convinto di sapere sempre cosa sia meglio per tutti, il protagonista è un padre e un marito che oggi considereremmo inaccettabile, ma, all’epoca della storia, appare invece come un tipo “normale”, anche quando non si fa tante remore nel mettere il becco nelle questioni private dei suoi figli. L’obiettivo è sempre quello di fare il loro bene, s’intende, e il loro bene, nella sua ottica, coincide con il procurare loro una vita economicamente sicura. Avere un buon reddito, per il protagonista, è l’unica cosa che conta, e dunque l’uomo vorrebbe vedere nei figli la sua stessa dedizione al lavoro. L’esempio, d’altra parte, lui l’ha sempre dato: non c’è male alla schiena che possa impedirgli di scaricare un camion di sacchi di cemento, né ci sono orari d’apertura e sacrifici capaci di fargli sognare una vacanza. Il lavoro è l’unico perno attorno a cui gira tutta la sua vita.
“Sono mancato all’affetto dei miei cari” è il lungo monologo interiore del protagonista, attraverso il quale l’uomo racconta le sue peripezie di genitore nel ristretto orizzonte della sua mentalità; è lo spaccato ironico e preciso di una certa società italiana, una commedia amara che, con garbo, prende in giro un modello maschile ormai sempre più raro. É il racconto di una famiglia come tante altre, che si srotola senza suddivisione in capitoli, quasi a rendere più concreti i pensieri del protagonista, che usa un linguaggio semplice, con espressioni e modi di dire del gergo dialettale, dando l’idea dello sfogo spontaneo, del bisogno di buttar fuori tutto quello che si sente dentro… fino all’ultimo respiro, come ci dice il titolo.
Una lettura gradevole ed evocativa del tempo che fu, se si riesce a sospendere il giudizio, osservando, con distacco da storico e sguardo ironico, la discutibile genitorialità dell’io narrante e il suo modo di essere padre e marito. Ma anche una testimonianza preziosa di un substrato culturale italiano ampiamente diffuso solo l’altro ieri, che molto può spiegare anche del nostro tempo presente.
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