I Malarazza


Tutto ha inizio nel 1860 a Castellammare del Golfo, in Sicilia, sullo sfondo della grande storia che segnò, in Europa, l’unità d’Italia e, negli Stati Uniti, la guerra di secessione. La Sicilia e l’America, sono rispettivamente la terra dell’origine e della nostalgia, e quella dei sogni e dell’ambizione, in cui le donne e gli uomini che popolano il romanzo, si muovono e si incontrano, fuggono e si trovano, conoscono lo sradicamento e fanno fortuna.

Nel 1860, Garibaldi si appresta a partire da Genova con una flotta di uomini armati e finanziati dai Savoia per abbattere il Regno borbonico delle Due Sicilie, cambiando così la storia d’Italia. In quel tempo di grandi cambiamenti, i Montalto sono una delle famiglie più in vista della zona, possidenti terrieri, produttori di olio e vino, benestanti, rispettati e invidiati.

Le loro terre sterminate, coltivate a ulivo e vite, sono amministrate dal fidatissimo Vincenzo Rizzo, che ripaga la fiducia di Antonio Montalto con un’assoluta fedeltà, mentre lui non si fa scrupolo di concedersi rustici sollazzi con la di lui moglie Vinzia, creatura selvaggia e quasi animalesca, di cui pure Vincenzo è innamorato. A lui i Montalto affideranno le proprietà prima di trasferirsi oltreoceano.

Antonio, infatti, non si accontenta più di ciò che ha ereditato dal padre e intuisce che la terra del successo è l’America, il nuovo mondo dove realizzare la sua ambizione, distaccandosi da un passato di arretratezza, per cercare nuovi sbocchi commerciali e nuove imprese, cavalcando con spregiudicatezza gli alti e bassi di un’epoca mutevole e ricca di rivolgimenti e novità.

Sua moglie, Rosaria Battaglia, è una donna tutta particolare, lontanissima dal cliché dell’angelo del focolare, volitiva, visionaria, più ambiziosa ancora del marito, che, in fondo, ne ammira la caparbia determinazione e il fiuto per gli affari. Già in patria, ignorando le convenzioni di una società antiquata e maschilista, ha avviato la spezieria, un’impresa tutta sua, e, nonostante abbia avversato il trasferimento oltreoceano, una volta in America, riuscirà a fondare e dirigere una banca per aiutare gli italiani immigrati a costruirsi un futuro, investendo sulle loro ambizioni e sulle loro speranze.

Attorno a Rosaria, Antonio e ai loro sei figli si intrecciano le vite dei personaggi secondari: Nicola Scudera, coraggioso e sfortunato, figlio illegittimo di Antonio e cresciuto in una famiglia di pescatori, inseguito dalle conseguenze di un’azione disperata, compiuta in buona fede nelle prime pagine del libro; la giovane e bellissima Bianca, un’orfana entrata ancora bambina al servizio dei Montalto, dove Rosaria, col tempo, arriverà a trattarla come una figlia, non solo portandola con sé in America, ma anche facendone una donna volitiva, decisa e libera proprio come lei; e Rocco Trupiano, della tribù degli Scippatesti, reietti dei bassifondi, duri, violenti, criminali, in fuga da un destino maledetto e assetato di inutile vendetta.

Ma non è oro tutto quello che luccica, e questa non è solo la storia di una famiglia siciliana benestante che va in America per fare fortuna. Uno sguardo più attento rivela che questa fortuna è figlia del malaffare, poiché i coniugi Montalto sono spregiudicati e avidi fino all’ingordigia: Antonio approfitta della guerra per trafficare armi con i confederali, pur mostrandosi entusiasta unionista, dopo aver approfittato delle relazioni e delle protezioni che gli ha procurato l’indebita fama di fervente sostenitore e amico di Garibaldi, mentre Rosaria Battaglia, già in odore di usura in patria, non si smentisce nell’esperienza americana, che tutto moltiplica e dilata.

Finché, quasi li seguisse dalla Magna Grecia dei loro natali, la hybris abbatte l’uomo che si è creduto simile agli dei, e colpisce l’intera famiglia punendo le colpe di Antonio Montalto e, di riflesso, dell’ambiziosa Rosaria Battaglia.

Nonostante io ami i tomi (e qui siamo intorno alle cinquecento pagine), le saghe familiari e la Sicilia, questo romanzo per me è stato una delusione. La critica più ovvia riguarda la sua struttura, che include un prologo e un epilogo del tutto avulsi dal resto del racconto. Il libro si apre infatti con una voce narrante che, dopo poche pagine, ci abbandona per riapparire soltanto in chiusura, rimanendo tuttavia misteriosa, poiché non è dato sapere chi sia questo personaggio parlante, di cui soltanto sappiamo che si dichiara «l’ultimo frutto del seme piantato da Antonio Montalto.»

Ora, siamo ormai abituati a una letteratura piegata alla logica delle serie tv e tuttavia, dopo un libro così ponderoso e pieno, mi pare legittimo aspettarsi un finale compiuto, e non l’effetto “to be continued”, il che, peraltro, non avrebbe impedito un possibile seguito, ma avrebbe reso la storia più completa e l’opera più rispettosa dei suoi lettori. Per quanto mi riguarda, del resto, nonostante questo irrisolto, non mi è affatto rimasta addosso la voglia di proseguire una lettura che, già in questo primo volume, ho trovato deludente.

La questione del prologo e dell’epilogo non è infatti l’unica che mi ha lasciato insoddisfatta. Il romanzo si sviluppa lungo un arco di vent’anni a partire dal 1860 e attraversa due mondi: la Sicilia e l’America. Le vicende storiche dei due paesi e quelle della trama, tuttavia, non si armonizzano felicemente fra loro, questione essenziale per un romanzo che vuole avere un fondamento storico pur trattando personaggi e situazioni di fantasia. La Storia con la esse maiuscola risulta noiosa e spesso ridondante e i legami con la trama o troppo laschi o troppo costruiti; nel primo caso la parte storica risulta superflua, nel secondo, artificiosa.

Ancora, in una saga familiare, la trama si sviluppa mentre l’autore tiene i fili dei diversi personaggi, raccontando dei loro rapporti e legami. L’abilità sta nel caratterizzare i tratti di ciascuno senza troppi appesantimenti, ma con sufficiente approfondimento, in modo che il lettore possa avere l’impressione di conoscerli e di seguirli lungo il passare degli anni; occorre per questo accompagnarli, i personaggi, mentre il filo del racconto si dipana, descrivendone i comportamenti, i mutamenti, i desideri, i pensieri. Questa parte è a mio avviso carente, e la narrazione rimane molto sbrigativa, più orientata a concentrarsi sulle azioni che i protagonisti compiono, piuttosto che a indagarne i tratti del carattere, le motivazioni del comportamento o lo sviluppo dei sentimenti: in questo modo il racconto rimane in superficie e lascia un senso di aridità, rendendo difficile empatizzare con i diversi personaggi del romanzo.

Infine le figure femminili. A parte un certo compiacimento fastidioso su scene di natura sessuale, in cui si confermano i soliti stereotipi cari all’immaginario maschile, il principale personaggio femminile, Rosaria Battaglia, risulta poco credibile. Non so se si tratti di intento politically correct, ma la rappresentazione di una donna del tempo di Garibaldi che sembra uscita dall’ultima classifica di Forbes, a me suona un po’ artificiosa. Per fortuna donne toste ne sono sempre esistite e non sarò certo io a disprezzare il racconto delle loro fatiche e dei loro talenti, doppi o tripli rispetto a quelli maschili, per ritagliarsi un posticino nel mondo, ma quando è troppo è troppo. E sembra la compensazione astratta di una realtà concreta ancora parecchio grama per le donne, perciò due volte insopportabile. Per non dire di mariti biechi maschilisti del loro tempo, che invece accettano senza un plissé (o quasi) una moglie che fonda e presiede una banca in un paese straniero. Mah. A me pare francamente un po’ troppo.