La parola “invidia” ha un’etimologia molto interessante. Deriva dal latino invidēre, composto da in- negativo e il verbo vidēre, quindi significa “guardar male”, “guardare storto”, e richiama il mal-occhio, ovvero l’occhio malevolo e, in generale, il potere malefico dello sguardo.
È il sentimento spiacevole che si prova per un bene o una qualità altrui che si vorrebbero per sé, accompagnato spesso da avversione e rancore per chi possiede tale bene o qualità; è, più in generale, la disposizione d’animo a provare tale sentimento, dovuta al senso di orgoglio di chi non tollera che altri abbia doti pari o superiori, o al senso di ingiustizia di chi ritiene l’altrui fortuna immeritata.
Gli antichi, felici per un amore fortunato o per una vittoria sul nemico, sapevano di doversi guardare dall’invidia degli dei, che potevano scatenare punizioni terribili contro il mortale che avesse osato innalzarsi al loro livello. Il timore di incorrere nell’ira divina suggeriva quindi all’uomo soddisfatto di sé, di non ostentare troppo la propria fortuna, ma di viverla con sobrietà e saggezza, e costituiva così una sorta di ammortizzatore, teso a mantenere un certo equilibrio all’interno del gruppo sociale, evitando di enfatizzare troppo le differenti sorti.
Nella dottrina cattolica, l’invidia è uno dei sette vizi capitali; consiste nella tristezza che si prova davanti ai beni altrui e nel desiderio smodato di appropriarsene, sia pure indebitamente. Quando arriva a volere un grave male per il prossimo, l’invidia diventa peccato mortale. Quindi, sembra che la colpa sia lieve finché è limitata al semplice desiderio di avere anche per sé qualcosa che un altro possiede, mentre diventa grave quando si trasforma in altro, quando dall’invidia nascono l’odio, la maldicenza, la calunnia, la gioia causata dalla sventura del prossimo e il dispiacere causato dalla sua fortuna.
Dante, nella Divina Commedia, colloca gli invidiosi non all’Inferno, ma nella seconda Cornice del Purgatorio, puniti da un terribile contrappasso: indossano un mantello di panno ruvido e pungente come un cilicio, siedono a terra appoggiati contro la parete del monte e hanno gli occhi cuciti da filo di ferro che impedisce loro di vedere, poiché in vita guardarono il prossimo con occhio malevolo.
Il rapporto tra invidia e vista non finisce qui, ma si arricchisce di un ulteriore elemento: l’invisibilità e la segretezza in cui questo vizio viene coltivato. Chi ammetterebbe infatti la propria invidia? Se tutti la provano, quasi nessuno la confessa.
L’invidia, insomma, è suscitata dal confronto con i nostri simili e si spiega, come suggerisce Kant, col fatto che noi sappiamo apprezzare il nostro benessere non secondo il suo proprio valore intrinseco, ma soltanto secondo il paragone che facciamo con il bene degli altri. (Immanuel Kant, Metafisica dei costumi)
Poiché scaturisce dal confronto col nostro simile, che ci ferisce nel nostro senso di superiorità e che, con la propria felicità, sembra minacciare la nostra, esprimere apertamente sentimenti d’invidia significherebbe ammettere la nostra inferiorità rispetto all’altro.
Nell’invidia l’individuo logora sé stesso senza alcun beneficio e si consuma nel desiderio inestinguibile della distruzione dell’altro. E quand’anche l’altro fosse distrutto, la soddisfazione non sarebbe ugualmente raggiunta poiché la fine dell’altro non procurerebbe in alcun modo l’accrescimento di sé (Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù)
Come suggerisce la dottrina cattolica, però, esiste anche la cosiddetta “invidia buona”, che non è altro che ammirazione. Se dico a un amico: «Che belle vacanze farai quest’anno! Come ti invidio!», non nutro sentimenti negativi, né mi auguro che il suo programma vada a monte. Chi ammira propende a considerare il risultato raggiunto dall’altro come meritato e possibile anche per sé. Ha perciò una diposizione d’animo benevola.
In questo senso, l’invidia buona può essere la molla di molti progressi personali: nel compito in classe voglio prendere un voto più alto di Tizio e studierò per riuscirci; nella partita di domani voglio fare più punti di Caio e mi allenerò per farcela. Anche qui, però, occorre una certa consapevolezza di sé: se Caio è un campione e io uno scartino, posso uccidermi di fatica ma non farò più punti di lui.
Il tema è ancora più spinoso se usciamo dalle performance personali e ci poniamo da un punto di vista sociologico: possiamo affermare che l’invidia sostiene i consumi e la pubblicità, spinge a superare gli altri producendo competitività, è una molla della mobilità sociale e consentirebbe di spingere in alto le prestazioni.
È di tutta evidenza, però, che la conflittualità interna al gruppo creata dall’invidia e la conseguente attivazione dei singoli, intenti in manovre di difesa e contrattacco, disperde energie; inoltre, se il contesto esterno non è favorevole, lo sforzo può facilmente tramutarsi in frustrazione e rabbia, come sta accadendo ai giorni nostri, con il blocco quasi totale dell’ascensore sociale, che rende determinanti e insuperabili le condizioni di partenza per la posizione sociale dei singoli.
In un mondo sempre più malato di successo, in cui si moltiplicano diseguaglianze e discriminazioni e in cui non è raro che la riuscita di qualcuno poco o nulla abbia a che vedere col talento e col merito, assistiamo a una forte polarizzazione: da un lato l’invidia buona è latitante, dall’altro, chi ha avuto fortuna, lungi dal temere la vendetta degli dei, altro non desidera che suscitare l’invidia altrui, quasi una misura del proprio successo, la rivendica, la pretende, e la attribuisce a chiunque, con l’arroganza di chi ritiene di valere più degli altri per il risultato raggiunto.
Tanto che l’invidia, nel linguaggio da bar che ormai contraddistingue anche il dibattito pubblico, è diventata il pratico passe-partout per squalificare qualsiasi critica e di conseguenza il criticante, comodamente evitando ogni confronto nel merito. L’accusa di invidia arriva automatica a chiunque abbia qualcosa da ridire, addossando, a chi azzardi un’obiezione, una malevolenza mortificante, dalla quale non c’è difesa. «Taci tu, che sei invidioso!»
Nel DSM 5 (*) l’invidia viene elencata tra i criteri diagnostici del disturbo narcisistico di personalità. Il narcisista “è spesso invidioso degli altri, o crede che gli altri lo invidino”.
Forse, il narcisismo dilagante del nostro tempo spiega anche il rinnovato ruolo di diserbante sociale dell’invidia, vera o presunta, subita, vissuta o attribuita.
«Taci tu, che sei invidioso!» è la fine di qualsiasi possibilità di confronto. Viviamo un tempo arido, un tempo di vani monologhi e sproloqui senza contraddittorio, poiché il dialogo presuppone l’ascolto e il rispetto dell’altro, e di entrambi abbiamo perso la traccia.
Non desiderare la roba degli altri
Non desiderarne la sposa
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
Che hanno una donna e qualcosa
Nei letti degli altri già caldi d’amore
Non ho provato dolore.
L’invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.
(Il testamento di Tito, Fabrizio De André)
(*) Il termine DSM è l’acronimo di Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders ovvero «Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali», il più diffuso strumento diagnostico per disturbi mentali utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo. Rivisto negli anni, l’attuale versione è il DSM 5.
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