Il sognatore


A quest’ora la metropolitana è una culla. C’è un odore tiepido di umanità assonnata e fuori il cielo è freddo e ancora scuro. Il movimento del vagone sulle rotaie è tutto strappi e rimbalzi, eppure, lasciando andare il corpo, può conciliare il sonno. I nomi delle fermate sono una poesia.

Come ogni mattina, quando l’uomo sale, il vagone è già affollato; è pallido, biondo, gentile, vestito in modo sobrio, sembra un giovane di altri tempi. E legge. Estraniato da tutto, non guarda le persone, non tira fuori il telefono dalla tasca. Sale col libro già aperto, si appende con una mano al tubo di ferro e non stacca più gli occhi dalla pagina stampata.

La donna è già lì, al suo posto nella fila in fondo. Lo fissa per tutto il tempo, senza discrezione; mattina dopo mattina ha scoperto che lui non avverte il suo sguardo, e ha smesso di sentirsi invadente, è solo curiosa. È lei a scendere per prima; a volte, mentre raggiunge l’uscita, nella calca gli si avvicina, lo sfiora, avverte l’odore di pulito dei suoi vestiti. È un bel giovane che potrebbe, per età, esserle figlio; questo la rassicura sul fatto che la sua attenzione, benché esagerata, possa rimanere dignitosa.

L’uomo asseconda col corpo i dondolii del vagone e intanto legge. Ogni due, massimo tre giorni, ha un nuovo libro. Legge di tutto, sempre romanzi; sembra seguire un genere alla volta, per alcuni giorni, poi cambia, senza nessuna logica.

La donna è curiosa di ogni nuovo titolo; se non lo conosce, lo cerca in rete, legge la trama, le recensioni, si chiede se a lui sarà piaciuto e perché, si immagina una loro conversazione sul romanzo del momento, sui personaggi, sulla storia.

Una mattina, quando la voce metallica dell’altoparlante annuncia la sua fermata, la donna rimane seduta al suo posto, senza perdere di vista il ragazzo col libro. Il viaggio prosegue ancora a lungo e il vagone finisce per svuotarsi, lasciandoli soli, lei sulla sua poltroncina, lui in piedi appeso al tubo di ferro. Finalmente l’uomo scende e la donna con lui. Si guarda intorno: estrema periferia, strade che non conosce.

Lui cammina davanti, con l’indice infilato nel libro e le mani dietro la schiena; non legge più ma sembra assorto. A un tratto si infila in un piccolo cortile e armeggia con la chiave a un portoncino. La donna trova il coraggio e si fa avanti, senza una strategia. «Mi scusi signore, mi chiedevo…» Lui si volta, con un piccolo sorriso gentile. «Buongiorno signora» dice con voce dolce, «ricevo solo nel pomeriggio, dalle quattro in poi; venga, quest’oggi non ho altri appuntamenti, l’aspetto. Ora però, mi perdoni, ma devo proprio andare.» Con un altro piccolo sorriso, sparisce chiudendosi la porta alle spalle.

La donna rimane lì come una sciocca, sicura di essere stata fraintesa, più curiosa di prima, incerta sul da farsi. Guarda i campanelli, tre in tutto, solo nomi maschili. Prova a indovinare quale sarà il nome del giovane. Studia la casa, una costruzione vecchia ma ben tenuta, coi muri gialli e le imposte scure; si sente fuori luogo, ma anche eccitata. Ha un appuntamento, non sa con chi e nemmeno perché. Potrebbe lasciar correre, ma sa già che, invece, arriverà puntuale.

Torna a casa, chiama il lavoro per avvertire che non andrà, per fortuna non fanno storie; la sua casa è grande e vuota, cerca di starci il meno possibile perché le sembra che quel silenzio le raffreddi l’anima e i pensieri. Per passare il tempo si mette a cucinare, non lo fa mai, perché mangiare da sola la riempie di tristezza.

Dopo pranzo apre le ante della vetrina e, inforcati gli occhiali, passa in rassegna i grandi barattoli di ceramica bianca, ciascuno con la sua etichetta scritta a mano con la grafia appuntita di sua madre; ci passa sopra il dito, lentamente: è quel che le resta della passione di famiglia per erbe e tisane, ereditata dalla nonna e accantonata per anni insieme ad altri dispiaceri.

Nel primo pomeriggio riprende la metropolitana; a quell’ora è tutto diverso, non ci sono i pendolari del mattino e nemmeno gli studenti, c’è gente varia, professionisti con la valigetta di cuoio, signore con le buste dello shopping, turisti con gli zaini, e altri che non riesce a classificare. La curiosità la tiene occupata e mitiga la sua impazienza.

Arriva troppo presto, le succede sempre; fa due passi in giro, ma non c’è niente da vedere. Mentre guarda l’orologio per l’ennesima volta, sente una voce che la chiama: il ragazzo è alla finestra e le fa segno di salire. L’appartamento non sembra la dimora di un giovane uomo, piuttosto quella di un’anziana signora; mobili antiquati, ninnoli, tende ricamate, con un innesto di disordine che risulta del tutto fuori luogo.

La fa accomodare in una specie di piccolo studio, con un tavolo ingombro di carte; siedono a fianco su un divanetto. «Mi deve perdonare» comincia lei, «non so bene cosa ci faccio qui. Non mi consideri maleducata, sono stati i libri a incuriosirmi, i libri e la sua lettura così assidua.» L’uomo non sembra stupito né infastidito. «Non si preoccupi, succede sempre la prima volta. Può apparire un po’ strano, all’inizio, ma non si faccia scrupoli, mi chieda pure tutto quello che vuole sapere.»

La donna esita. È dal mattino che pensa a come scusarsi per la sua invadenza, a come giustificare il suo abbordaggio che l’uomo ha certamente frainteso. Aveva sperato in una targa alla porta o un titolo a fianco del nome sul campanello, che le rivelasse la professione del giovane, in modo da comprendere le ragioni del fraintendimento, invece niente. Ora però lui sembra offrirle una via d’uscita per ridimensionare la sua brutta figura.

«Vorrei che mi spiegasse meglio cosa fa.» Lo dice a voce bassa, dopo aver scelto parole generiche, che lascino aperte tutte le porte. Lui sembra abituato a domande del genere e non si scompone. La guarda diretto, con espressione seria mentre gli occhi sorridono. «Io sogno» dice con voce ferma, poi tace, lasciando che le parole facciano il loro lavoro. La donna non è sicura di aver capito. «Sogno al posto degli altri» riprende il giovane, «di quelli che non riescono a farlo oppure non possono ricordare. È questo che faccio.» «E guadagna bene?» La donna non sa come le sia uscita di bocca una simile scempiaggine, con tutte le domande che avrebbe potuto fare. Il giovane sorride. «Non è un servizio, ma un gesto d’amore e non si pagano i gesti d’amore.»

La donna sente un’ondata di emozione invaderle il petto, chissà perché. «Lei sogna?» chiede lui. Scuote la testa in segno di diniego. Non sogna mai, oppure non ricorda. «Se qualcuno desidera un sogno, io posso sognare al posto suo» continua il giovane, «non succede a comando, è un dono il mio, e va coltivato. Devo conoscere la persona e le ragioni del suo desiderio. I libri sono fonte di ispirazione; cerco romanzi attinenti alle vicende del richiedente e mi immergo nella lettura, così la mente inizia ad allestire la scena, ma il confine è labile, devo stare attento: il romanzo deve rimanere sullo sfondo, senza interferire. Per vivere faccio il portiere di notte, in un albergo di lusso; quando ci incontriamo in metropolitana, mentre lei va al lavoro, io torno a casa a dormire; appena sveglio, prendo subito nota dei sogni che ho avuto; è un momento importante, che mi permetterà di accontentare qualche richiesta.»

La donna lo guarda con tenerezza; le sarebbe piaciuto avere un figlio così. «E cosa succede se il sogno non arriva, oppure non ha nulla a che fare con la richiesta?» chiede. «Allora bisogna aspettare e avere pazienza. Il sogno giusto arriva sempre, a volte però serve tempo; quando arriva ne parlo con l’interessato e lascio che sia lui a dargli un senso e a decidere se tenerlo o cercarne un altro. Per me non è uno sforzo, ma un grande onore. Io sono soltanto un tramite, il resto viene da sé.»

«E quali sono le ragioni per chiedere un sogno?» «Anche se può sembrare strano, raramente le persone cercano la premonizione, più spesso desiderano il ricordo; ma se qualcuno cerca un sogno che gli indichi il futuro, allora gli faccio leggere questo.» Il giovane si alza e si avvicina al tavolo, estrae da una pila un piccolo libro molto gualcito, lo apre dove c’è il segnalibro e legge ad alta voce:

«“E gli rispose la scaltra Penelope queste parole:
sono difficili a intendere i sogni, son privi di senso,
ospite; e ciò che v’appare non tutto si compie ai mortali.
Infatti, sono due le porte dei labili sogni:
sono di corno le imposte nell’una, nell’altra, d’avorio;
e i sogni che traverso ci giungon le lastre d’avorio,
sono ingannevoli, e i detti che recan non giungono al fine;
ma quelli che traversan la porta di lucido corno,
all’uomo che li scorge prenunzian veridici eventi.”

È l’Odissea, il canto XIX: Penelope parla con l’ospite che ancora non ha riconosciuto e che, in realtà, è proprio Ulisse. Così chiarisco ai miei richiedenti che nessuno può garantire la veridicità dei sogni: non è un mio difetto, lo sapeva già Omero e io non sono un ciarlatano, ma un messaggero.»

La donna tace; percepisce nel ragazzo una fede che la commuove, proprio come un gesto d’amore. Non si sente più fuori luogo, al contrario; c’è qualcosa di benevolo nello sguardo del giovane che le dà consolazione; lui la guarda con un sorriso. «Le andrebbe una tazza di tè?»

*****

Un suono violento le lacera il sonno. Si mette a sedere, si sfrega gli occhi assonnati, guarda la sveglia, si chiede se per caso ha sognato, ma il suono si ripete nel buio, insistente, è un suono reale. La donna si alza senza accendere la luce, afferra la vestaglia ai piedi del letto e se l’infila mentre cammina scalza fino alla porta. Il cuore le batte forte, chi può essere a quest’ora di notte? Scosta lo spioncino e guarda fisso attraverso la lente, poi gira la chiave nella toppa e toglie le mandate.

Il giovane a malapena si regge in piedi, dev’essere ubriaco; non ricorda di avergli mai dato l’indirizzo di casa, ma adesso non importa. Lo accompagna dentro quasi di peso, lo lascia andare sul divano, gli dà un secchio, se dovesse dare di stomaco e intanto prepara un caffè forte. Lui biascica cose sconnesse, che lei non capisce. Quando si avvicina con la tazza fumante, lui la respinge con forza, quasi le fa rovesciare tutto per terra. La donna si siede in poltrona e comincia a sorseggiare il caffè che lui ha respinto. Il giovane si assopisce, la testa a ciondoloni sul petto. Senza accorgersi, lei si riaddormenta. Domani è domenica, nessuno deve alzarsi presto.

È il collo indolenzito a svegliarla; è giorno fatto; il giovane è seduto al tavolino e la guarda mentre si sveglia. Lei si vergogna e si passa d’istinto la mano tra i capelli arruffati. «Buongiorno» dice lui dolcemente, «non potrò mai chiederle scusa abbastanza, ma, mi creda, non avevo dove andare. Spero che potrà perdonarmi per essermi presentato così…» Lascia la frase in sospeso, non c’è altro da dire. Lei tace, si alza e va in cucina. Torna poco dopo con un vassoio e la colazione: tè, biscotti, pane secco e marmellata. Quello che ha trovato. Non è solita avere ospiti.

Mangiano adagio, restando a lungo in silenzio. Sono passati alcuni mesi da quella prima volta in cui si è presentata senza conoscerlo, ci sono stati altri incontri, ma non gli ha mai chiesto di sognare per lei. Forse è nata una specie di amicizia fra loro, anche se la donna pensa che lui dovrebbe frequentare gente della sua età. Il giovane, invece, sembra apprezzare la sua compagnia e, da allora, lei non ha più avuto quelle emicranie terribili che le fanno bruciare le radici dei capelli.

Parlano di tante cose, soprattutto di libri e di sogni. Si danno ancora del lei e al mattino, in metropolitana, si scambiano solo un impercettibile cenno di saluto quando lei scende per prima. La lettura è un rito che lui non vuole interrompere.

Da alcune settimane, però, lui è sparito, non si è fatto vedere nemmeno in metropolitana. Preoccupata, lei ha pensato tutti i giorni di presentarsi a casa sua senza preavviso, per avere notizie, ma si è trattenuta, non vuole essere invadente. Un po’ per gioco, un po’ per darsi pace, ha cercato di immaginare le ragioni più probabili di quella prolungata assenza, prima fra tutte, possibilmente, una ragazza. Era quasi riuscita a crederci. E invece ecco che si presenta in piena notte, a casa sua, ubriaco da non stare in piedi; ora la sbronza è passata, ma lui è disperato. Qualunque cosa sia, sembra far male.

Il giovane posa la tazza di tè. «“Sonno, quiete d’ogni cosa, Sonno, dolcissimo fra i numi, pace dell’animo, che disperdi gli affanni e rianimi i corpi oppressi dal lavoro e li ritempri per nuove fatiche…”» declama a mezza voce. «Sono le parole di Ovidio, nelle Metamorfosi; le ho sempre trovate così precise, così perfette, insostituibili. Non so cosa sia capitato nella mia mente, ma da giorni non dormo, amica mia, e ho perso il mio dono. Non chiudo occhio e, se mi appisolo, è un sonno inquieto e inutile, un sonno vuoto di sogni e di riposo. Notte dopo notte, l’assenza di sonno mi lascia esausto nel corpo e orfano di felicità. Non posso più dormire, non riesco più a sognare.»

Si copre il viso con le mani; è più pallido del solito, smagrito e segnato. «Ho fatto di tutto. Ho provato a dormire sul divano, sul pavimento, in poltrona. Ho provato a cambiare orario, a prendere qualche pasticca. È stato tutto inutile. L’alcol è stato l’ultimo tentativo. Non mi fa dormire, ma almeno anestetizza il mio dolore. Improvvisamente soffro d’insonnia e mi fa orrore; di tutti i malanni l’unico irrimediabile per un sognatore.» La donna vorrebbe accarezzargli i capelli, ma non lo fa. Trema all’idea di vederlo piangere. Non l’aveva mai chiamata “amica mia” e lei pensa che ha solo la sua vicinanza per consolarlo, non lo conosce abbastanza per sapere come fare, ma ascoltare è il rimedio più antico del mondo, e si può ascoltare anche il silenzio, se l’altro ha solo quello da dare.

Nessuno dei due saprebbe raccontare come, eppure ora il giovane, allungato sul divano, dorme, mentre la donna lo guarda. Sembra un sonno lieve, il suo, e pesante a un tempo. Lei si alza e si muove per la stanza come se volasse, senza nessun rumore, nemmeno un fruscio; per non disturbarlo si chiude in cucina e aspetta. Prova un senso di pienezza, come una grande gioia senza merito, un attimo di benevolenza dell’universo.

È quasi buio quando il giovane apre la porta e si ferma sulla soglia, col suo sorriso gentile sul viso ancora assonnato. Anche la donna sorride. «Vorrei carta e penna, prima che il sogno svanisca» dice il ragazzo; sembra stanchissimo, ma sollevato. «Questo sogno è suo, anche se non me l’ha chiesto.» Si siede al tavolo e scrive in fretta, con una scrittura tonda da bambina e una strana manovra del polso, perché è mancino.

Dall’altra parte della stanza, lei osserva affascinata quel movimento tortuoso, senza parlare. Il giovane si alza, piega il foglio in quattro e lo lascia sul tavolo. «Quando sarà pronta» dice dolcemente, poi le afferra le mani e gliele bacia, mormora parole di ringraziamento e di saluto e infine è sulle scale.

La donna resta sulla soglia mentre il sognatore scende coi passi veloci dei suoi pochi anni. È invasa da una gratitudine nuova, che la rende leggera. La casa le sembra meno vuota, il silenzio meno freddo; prende il foglio piegato in quattro e lo tiene fra le dita, poi, aperta la credenza, lo infila nel barattolo del biancospino, senza guardarlo. Arriverà il momento. O forse lo conserverà come un ricordo.