Anna e il marito Carlo arrivano a Lizzanello, in provincia di Lecce, col loro bambino; per Carlo è un ritorno nella sua terra, per Anna l’abbandono della sua Liguria per seguire il marito. Qui la protagonista non si integrerà mai veramente, fieramente manifestando, per tutto l’arco della narrazione, la sua diversità rispetto a quel mondo meridionale che le appare retrivo e antiquato. Anna ha dovuto lasciare il suo lavoro di maestra e sogna di poterlo riprendere, vuole lavorare e non si accontenta del ruolo di moglie e di madre. Nell’incredulità generale, partecipa a un concorso alle Poste e lo vince, diventando portalettere. Ma, ai fini della storia, il ruolo assunto è soprattutto il mezzo per entrare in relazione con altre persone, le cui vicende personali e sentimentali, aggiunte a quelle della protagonista, costituiscono il vero cuore del romanzo. Quanto ad Anna, pur amando il marito, intrattiene una lunga relazione col cognato, innamorato di lei, col quale avverte un’affinità intellettuale e condivide la passione per le letture colte, ma l’attrazione non diventerà mai una vera storia tra loro.
“La portalettere”, di Francesca Giannone, mi aveva inizialmente incuriosito, in quanto pubblicizzato come la storia di una donna libera e lavoratrice ante litteram, la prima postina del Salento, e invece si è rivelato una grande delusione, essendo, in realtà, una soap piuttosto banale, prolissa, infarcita di luoghi comuni e, quel che più mi ha sfavorevolmente colpito, sterilizzata rispetto al contesto storico e sociale, che è meno di una pennellata di sfondo, nonostante abbia addirittura sentito dire, in un commento televisivo, che è uno di quei libri che ci aiutano a ricordare la storia d’Italia, il che mi ha fatto saltare sulla sedia: basti dire che gli anni tra il 1938 e il 1945 sono stati semplicemente cassati; in altre parole, i tempi più difficili da raccontare, quelli che sono passati sopra le vite di tutti gli Italiani lasciando il segno, vengono comodamente saltati a piè pari nel racconto.
Mi rendo conto che il giudizio appare piuttosto duro e del tutto fuori dal coro, poiché in rete ho letto, per la verità, diverse critiche, ma di certo molte più recensioni simili a sdilinquimenti veri e propri, qualcuno afferma addirittura che sia il libro più bello mai letto e francamente mi dispiace per lui. È recentissima, inoltre, la notizia che “La portalettere” ha vinto il Premio Bancarella e pare diventerà un film; come sempre faccio quando capisco di non essere in linea coi più, mi fermo a riflettere e cerco di approfondire il mio pensiero. Che però, ve lo anticipo subito, anche dopo lunghi ripensamenti, rimane quello.
“La portalettere” si pone come una storia familiare che si snoda tra gli anni ’30 e ’50 del Novecento, un tempo drammaticamente segnato dalla storia, che non può essere ignorata, specie se il tema principale del racconto, come suggerito dal titolo, è il ruolo lavorativo, all’epoca certamente singolare se assunto da una donna. Invece, ogni riferimento all’attualità storica e sociale dell’epoca pare accuratamente evitato dall’autrice, o ridotto a qualche riga laconica, che risolve l’ambientazione della vicenda nella monotona ripetizione di luoghi comuni su settentrionali e meridionali, scolarizzati e analfabeti, uomini e donne e altre simili dicotomie: una realtà semplificata, fatta di opposti, bianco o nero, senza sfumature né incertezze.
Quanto all’innovatività del ruolo di portalettere per una donna del tempo, in un piccolo centro del sud Italia, la questione che pare rivestire maggiore interesse per l’autrice, come ha dichiarato lei stessa in più di un’intervista, è la possibilità di conoscere, tramite la consegna della posta, tutte le famiglie del paese, il che consente alla protagonista di entrare nelle loro vite e, volente o nolente, di venire a conoscenza di molti segreti, considerata la frequente necessità di farsi anche lettrice o scrittrice delle missive in arrivo o in partenza, stante il diffuso analfabetismo.
Così, la storia di Anna, che, negli anni ’30 del Novecento, dalla Liguria segue il marito in Puglia, vince un concorso alle Poste e diventa portalettere, lungi dall’essere trattata come “lotta per la parità di genere”, come pure ho letto da qualche parte, viene sviluppata come intreccio dei pettegolezzi e dei segreti del paese.
Sulla cancellazione o, nel migliore dei casi, sulla semplificazione del contesto storico sociale ho già detto, ma la semplificazione non si ferma qui e si estende anche al disegno dei caratteri, in particolare della stessa protagonista, dotata di un profilo tediosamente monodimensionale: l’unico tratto di lei che viene esposto per le 400 e passa pagine del libro è la libertà di pensiero, la sua autonomia, il suo rifiuto del ruolo femminile tradizionale. Ma questo modello di pensiero non viene in alcun modo esplorato, non sappiamo come è nato, né come la stessa Anna lo vive e non conosceremo, durante l’intera narrazione, nessuna sua evoluzione: non c’è traccia di introspezione e tutto ciò che sappiamo è che si tratta di una scelta senza compromessi, che le fa guardare dall’alto in basso il resto del mondo, rendendola supponente e francamente poco credibile. Non c’è lotta in lei, non c’è timore, non c’è dubbio, non c’è nemmeno comprensione per chi non ha la sua determinazione, ma solo una sorta di militanza a senso unico che la porta, tra l’altro, a intervenire nella vita dell’amica e dell’amata nipote, imponendo la sua visione del mondo e provocando danni seri nelle esistenze altrui, dei quali non pare pentirsi, né avere consapevolezza.
Ugualmente monodimensionali sono, per converso, le altre donne della storia, prone al ruolo tradizionale in cui da secoli vivono soggette al potere patriarcale e istintivamente ostili nei confronti della diversa, mentre i due protagonisti maschili, il marito di Anna e il di lui fratello, segretamente innamorato della cognata, vengono incongruamente divisi in due: uomini aperti a un rapporto paritario col femminile, quando si tratta di Anna, eppure perfettamente integrati e conformi al mood maschilista del tempo, quando si tratta delle altre donne; anche loro senza sbavature, rovelli, cedimenti, niente. Il povero Carlo ogni tanto protesta, quando Anna vuole fare la postina, quando non vuole votarlo come sindaco perché si presenta per la Democrazia Cristiana, ma sono scambi quasi dovuti, di nessun peso, non c’è alcuna lotta. In omaggio alla semplicistica ottica dicotomica di cui ho già detto, lei voterà comunista, però senza dirlo, per non agitare le acque.
Impossibile, infine, non notare alcune ingenuità, come le donne che frequentano abitualmente il bar del paese, neanche la storia fosse ambientata nel 2023, mentre, al tempo, quelle perbene se ne tenevano alla larga, oppure le protagoniste che hanno tutte un unico figlio, situazione in realtà molto rara all’epoca, specie nel meridione d’Italia.
C’è qualcosa di infantile nella costruzione di questo mondo semplificato dove la protagonista è sempre nel giusto, anche quando rifiuta i riti di integrazione nel nuovo ambiente, al limite della maleducazione; e c’è qualcosa di infantile nel presentarla naturalmente bellissima (poteva essere altrimenti?), cioè non piacente o graziosa, no, proprio bellissima, neanche fosse la principessa delle fiabe; intorno un mondo semplice, in bianco e nero, fatto di stereotipi banali e luoghi comuni, privo di contesto storico sociale, privo degli anni di guerra, privo di approfondimenti e introspezione, dove tutto quel che resta è il sempreverde feuilleton, che non passa mai di moda.
Non c’è niente di male nel dilettarsi con il feuilleton: però chiamiamo le cose con il loro nome.
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