“La bellezza salverà il mondo” è una delle citazioni più popolari del momento, ripetuta all’infinito, come se il suo significato fosse evidente e univoco.
In realtà, nel romanzo “L’idiota”, da cui è tratta, il principe Myškin non la pronuncia mai direttamente, ma gli viene attribuita da altri che gliene chiedono conferma, senza peraltro ottenerla. Il brano si conclude poi con una domanda precisa, (“Quale bellezza salverà il mondo?”) a cui il principe non risponderà.
«Di che cosa avete parlato? È vero principe che una volta avete detto che la “bellezza salverà il mondo”? Signori» prese a gridare a tutti, «il principe afferma che la bellezza salverà il mondo! ed io affermo che idee così frivole sono dovute al fatto che in questo momento egli è innamorato. Signori, il principe è innamorato, non appena è arrivato, me ne sono subito convinto. Non arrossite principe, mi impietosite. Quale bellezza salverà il mondo?» (L’idiota – Fëdor Dostoevskij)
Non credo che, così contestualizzata e fragilizzata nella sua sostanza, la citazione godrebbe di altrettanta fama. Ma si sa, in questo nostro tempo di grande complessità, l’estrema semplificazione sembra affascinare i più. E così, che “La bellezza salverà il mondo” viene ripetuto come un mantra salvifico, dichiarato come un assioma: non ci sono dubbi, non è un’ipotesi, è un fatto, anche se futuro, dobbiamo solo aspettare e accadrà. E chissà poi quale sarà, come Dostoevskij fa chiedere al suo personaggio, la bellezza salvatrice che attendiamo con granitica fiducia.
Ma cos’è mai la bellezza?
Tutti la inseguono, la citano, la studiano, la desiderano per sé, la cercano nelle cose e nelle persone, eppure definirla non è certo facile. Nominarla, però, specie se con la B maiuscola, ci fa sentire migliori, come fosse un’evocazione, una sorta di incantesimo, e il solo pronunciarlo aprisse le porte di una conoscenza molto esclusiva.
“Bellezza: qualità di ciò che appare o è ritenuto bello ai sensi e all’anima. La connessione tra l’idea di bello e quella di bene, suggerita dalla radice etimologica (il latino bellus “bello” è diminutivo di una forma antica di bonus “buono”), rinvia alla concezione della bellezza come ordine, armonia e proporzione delle parti, che trovò piena espressione nella filosofia greca. In seguito, la nozione di bellezza è diventata categoria autonoma, caratterizzata dalla capacità del bello di essere percepito dai sensi. Dalla dottrina del bello come ‘perfezione sensibile’ nasce e si afferma, nel 18° secolo, l’estetica come disciplina autonoma riguardante il bello.” (Treccani)
Gli spunti di riflessione certo non mancano, a cominciare dalla citazione dell’anima, accanto ai sensi, quale recettore sensibile alla bellezza, per continuare col collegamento del bello e del buono, dove l’etimologia evidenzia un’origine etica della bellezza, la kalokagathia della Grecia classica. A complicare ancor più le cose, si aggiunge l’impossibilità di determinare una volta per tutte il significato del bello, anche da un punto di vista storico, poiché ogni epoca ha espresso una visione propria della bellezza, differente nel tempo anche in modo significativo.
La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le osserva, diceva nel ‘700 il filosofo David Hume, e oggi, grazie alle neuroscienze, si scopre che è davvero così, poiché è stata individuata una zona specifica del cervello che reagisce davanti a ciò che percepiamo come bellezza.
Si può obiettare che non bisogna confondere la bellezza col gusto, questo sì individuale, soggettivo, mutevole nel tempo e nello spazio; e tuttavia la bellezza non può dirsi nemmeno oggettiva, perché significherebbe ridurla a una qualità tra le altre, come la dimensione o il colore, un semplice attributo.
Forse è tempo di superare le polarità che costellano la nostra cultura e che tanto impoveriscono le nostre esperienze: oggettivo / soggettivo, cognitivo / emotivo, razionale / irrazionale, dove il polo soggettivo-emotivo-irrazionale è guardato con sospetto da una scienza sempre più “oggettivante”, un po’ come il lato debole, pseudoscientifico, in odore di sentimentalismo.
E se così non fosse? Se i dualismi in cui siamo immersi non fossero che un’arbitraria semplificazione? Se riconosciamo dignità alla dimensione emotiva della personalità e la consideriamo una competenza che può essere sviluppata, allora possiamo affermare che la bellezza non è propria delle cose in sé (corpi, cose, opere d’arte…), non si riferisce a qualità e caratteristiche oggettive, ma sta nell’emozione, determinata, in chi guarda, dal suo mostrarsi.
É più probabilmente un’attitudine, un’inclinazione a fare esperienza del mondo attraverso un livello più raffinato e sottile di coscienza, che si manifesta nell’incontro fra l’osservatore e il soggetto o l’oggetto osservato.
Se così è, sicuramente al bello si può educare, non fornendo canoni di bellezza precostituiti, ma sviluppando un aspetto particolare di competenza emotiva e sensibile, ovvero la capacità di provare, interpretare e affinare specifiche emozioni davanti alla bellezza di un corpo, di un gesto, di un paesaggio, di un’opera d’arte o di una poesia.
Se intendiamo la bellezza come l’esperienza che emerge, allo stesso tempo, dentro di noi e nelle relazioni con gli altri e il mondo, riconosciamo che non si tratta di un’esperienza contemplativa, ma generativa: la risonanza che proviamo avvia un cammino alla ricerca del senso e dei significati della bellezza nell’esperienza umana, probabilmente uno dei tratti distintivi della nostra specie, una delle dimensioni peculiari mediante la quale ogni individuo diventa sé stesso.
“Popolo di Orfalese, la bellezza è la vita, quando la vita disvela il suo volto sacro.
Ma voi siete la vita e siete il velo.
La bellezza è l’eternità che si contempla in uno specchio.
Ma voi siete l’eternità e siete lo specchio.”
(Il Profeta – Sulla bellezza – Kahlil Gibran)
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