Elogio della restanza


“Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Voglio partire dal celeberrimo incipit di “Anna Karenina”, per permettermi di contraddire l’immenso Tolstoj, il quale, ne sono certa, resterà del tutto indifferente di fronte alla mia tracotanza.

Io credo che anche le famiglie felici siano felici in modi diversi, il problema è che non interessano a nessuno. Perché non si lamentano con gli amici, non vanno dallo psicologo, non richiedono prestazioni di supporto, semplicemente stanno bene. E magari non lo dicono tanto in giro, forse perché, per scaramanzia, vogliono evitare l’invidia degli dei; forse perché si sentono strani e diversi, una specie in via di estinzione; o forse perché non credono di essere interessanti.

A volte, se si parla di coppie di lunga durata, si coglie una sorta di scetticismo, come a dire “vabbè, se stanno insieme da tanto è perché si accontentano”, come se solo la freschezza di una storia fosse garanzia di amore e felicità.

Premetto che trascinare una relazione, per convenienza, per pigrizia, per non rimanere soli o anche per i figli, non è mai una buona idea; e neppure cito le drammatiche situazioni in cui, oltre all’infelicità, c’è anche violenza fisica o psicologica, perché in quel caso l’unica possibilità è quella di uscirne il più in fretta possibile. Né intendo imbarcarmi nella temibile dissertazione sulla monogamia degli umani: legge di natura o imposizione sociale?

Rimanendo coi piedi per terra, comincerei col chiedere cosa ci rende felici. Non è un caso se la stragrande maggioranza delle persone non nasconde di desiderare una relazione soddisfacente e duratura, spesso difficile da trovare. D’altra parte, non dovremmo neppure dimenticare che la fine di una relazione importante è sempre un dolore, anche per chi lo decide; è comunque un lutto, un taglio, una parte di sé che si lascia indietro e non è facile per nessuno.

E allora? Non dovremmo cercare di capire come fanno quelli che ci riescono? A rimanere insieme, voglio dire, a rimanere insieme per lungo tempo e con reciproca soddisfazione. Ecco perché questo articolo si chiama “Elogio della restanza”, un termine che ho rubato all’antropologia, che lo impiega soprattutto in riferimento al legame con la terra d’origine e ai fenomeni migratori, ma che mi pare azzeccatissimo per indicare il desiderio di restare nella coppia, di perseverare, di crederci, anche se può non essere sempre facile.

Su innamoramento e amore, sulla formazione della coppia, il suo ciclo vitale, le possibili crisi, si sono scritte migliaia e migliaia di pagine, ma va detto che, ovviamente, non esiste nessuna ricetta possibile e ogni coppia è un incastro unico e irripetibile, difficile da decifrare dall’esterno.

Ci sono però, a mio avviso, aspetti che possono risultare facilitanti rispetto all’evoluzione e alla durata di un rapporto e altri che, al contrario, possono essere d’ostacolo. In ogni caso dobbiamo sempre ricordare che le garanzie, in amore, non esistono e quando pronunciamo il famoso giuramento “finché morte non ci separi” (anche se adesso la formula è più morbida, ma il senso è quello), che lo diciamo in chiesa o in municipio, o anche solo fra noi due in una serata romantica, in realtà promettiamo qualcosa che non è del tutto nella nostra disponibilità, a meno che non l’intendiamo soltanto in senso formale, perché ognuno di noi evolve e cambia e non sappiamo realmente oggi come saremo domani.

Detto tutto ciò, se proviamo a indagare cosa può incidere sulla felice durata di un rapporto, comincerei sgombrando il campo dal mito della spontaneità dell’amore e dall’idea connessa che tirare in ballo la volontà e l’intenzione sia un po’ come svilire la coppia, da incontro fatale e irresistibile a bieco accordo contrattuale, sia che il contratto ci sia davvero (matrimonio), sia che tecnicamente manchi.

Nessuna impresa umana si fa da sé, perché per la coppia dovrebbe essere diverso? Sappiamo che l’innamoramento è una delle esperienze umane più vitali e felici, tuttavia è diffusa la pessima idea che sia in qualche modo contrapposto all’amore, come dire che la meravigliosa emozione dell’inizio sarebbe in antitesi con una fase successiva più razionale, in cui la passione si trasforma in progetto, in movimento a due che ci permette di riconoscerci per ciò che siamo e amarci. Come dire che l’età dell’oro dei primi tempi ha vita breve e non tornerà, e questo progresso sarebbe una perdita cui bisogna adattarsi.

In realtà non c’è contrapposizione, perché si tratta di fasi diverse di uno stesso fenomeno: quando il gioco di specchi dell’innamoramento, in cui abbiamo offerto la migliore immagine di noi, evolve, cominciamo a vederci per quello che siamo; questo è un momento fortemente critico per il rapporto, in cui possiamo riconoscerci l’un l’altro e iniziare un’esperienza felice, oppure rimanere delusi e domandarci come abbiamo potuto ingannarci così.

Naturalmente l’esito può essere diverso per ciascuno dei due membri della coppia e questo può generare molta sofferenza, ma si tratta di un momento essenziale, nel quale occorre essere fedeli a sé stessi e non accettare compromessi al ribasso.

In questa fase non dobbiamo confondere l’ammirazione e i sentimenti che proviamo per l’altro/a, con il modo in cui lui/lei ci fa sentire; i primi hanno a che fare con ciò che ci piace, il secondo ha a che fare con ciò di cui abbiamo bisogno.

Abbiamo tutti legittimi bisogni, e il principale, che può riassumere gli altri, è quello di essere amati; ma se questa è la sola nostra bussola, siamo nei guai: se accettiamo di avere a fianco qualcuno solo per non restare soli, frustrazione e insoddisfazione sono dietro l’angolo, per noi e per l’altro/a, tenuto/a vicino per il nostro bisogno, ma non veramente apprezzato/a e amato/a.

Superata positivamente la fase del riconoscimento, la coppia è formata; a questo punto, le caratteristiche che maggiormente sembrano giovare alla sua duratura salute, non hanno tanto a che fare con l’incontro, ma sono attributi personali, che nel legame possono trovare conferma e consolidarsi.

Il primo aspetto utile è la convinzione che la verità sia relativa e non assoluta, e la realtà soggettiva: l’approccio cosiddetto et-et (e – e), che include, indica una mente aperta che accetta la diversità e i limiti propri e dell’altro; in questo modo, una divergenza di vedute nella coppia non rappresenta una messa in discussione del mio intero essere, ma l’opportunità di un confronto autentico sulla questione discussa, che può dar luogo a una sintesi creativa e condivisa.

Al contrario, una mentalità aut-aut (o – o), che contrappone ed esclude, di fronte a una divergenza di opinioni, genera la sensazione di una minaccia che va oltre il tema in discussione, e investe tutto il mio essere, la mia integrità, fino a trasformare l’atmosfera del rapporto in un clima di sfiducia reciproca e in un modello intercambiabile di attacco/difesa, dove perdono tutti.

Certo se le divergenze sono molte, gravi e su temi importanti, può darsi che, nella fase del riconoscimento che segue l’innamoramento, uno o entrambi abbiano accettato ciò che avrebbero dovuto rifiutare, magari augurandosi che l’altro/a sarebbe cambiato in futuro. Il che non funziona mai, eppure non è affatto raro. In questo caso, sforzarsi di avere un approccio più aperto potrebbe non essere sufficiente a salvare il rapporto.

Il secondo aspetto utile alla durata della coppia, è la benevolenza, lo sguardo fiducioso sul mondo, ovvero la convinzione che gli altri non siano necessariamente cattivi o ostili e che, al contrario, l’incontro fra gli esseri umani possa risultare vantaggioso. La fiducia di cui parlo non è una fede cieca nella bontà dell’uomo, ma l’accettazione di una caratteristica umana comune, che è l’ambivalenza: abbiamo tutti molti aspetti diversi e un comportamento singolo non qualifica la persona intera. Il che non significa che si deve accettare tutto, ma suggerisce di non accusare il/la nostro/a compagno/a di non amarci più, solo perché si rifiuta di portare giù il cane quando piove.

E poi ridere. Ridere insieme e soprattutto saper ridere di sé, perché la leggerezza è una medicina buona per molti malanni. Infine, lo ammetto, meglio fornirsi di amuleti, talismani e scongiuri perché, diciamolo francamente, per far durare una coppia felice, i favori del cielo servono comunque.

“Il cielo sa quello che vuole, e quando un matrimonio non è scritto nel suo libro, abbiamo voglia, noi poveretti, di scrivere i nostri nomi l’uno accanto all’altro nel libro della parrocchia… il matrimonio rimane sulla carta!”

(Vitaliano Brancati, “Il bell’Antonio”)