“L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio è pubblicato da Einaudi nel 2023. Lucia è la protagonista e la voce narrante, tra i quaranta e i cinquant’anni, separata, lavora in proprio come fisioterapista e sembra vivere anestetizzata; ha lasciato che il marito si allontanasse da lei quasi senza accorgersene, vorrebbe riavvicinarsi ma non fa nulla; non riesce a ridisegnare i confini nella relazione con l’anziano padre, che ancora la tratta come una bambina ma dal quale non sa separarsi; non ha saputo costruire un rapporto positivo con la figlia Amanda, oggi ventenne, dalla quale la divide un’insuperabile incomunicabilità. La sua vita pare pervasa da una grande stanchezza interiore; si anima un poco solo quando canta nel coro.
La vicenda inizia con l’inatteso ritorno di Amanda, universitaria a Milano, in pieno periodo pandemico, nella casa dove ormai Lucia vive sola, nel paese vicino a Pescara da cui la ragazza è fuggita non appena ha potuto. Alla donna basta uno sguardo per capire che qualcosa in lei si è spento: cupa e taciturna, la figlia non parla, la esclude, si chiude in camera e non esce mai.
La protagonista è inoltre alle prese con suo padre, un uomo burbero che, ormai anziano, vuole lasciarle in eredità il terreno ai piedi del Dente del Lupo, nel massiccio montuoso del Gran Sasso. Quel luogo, però, nasconde un fatto di cronaca nera accaduto trent’anni prima: un femminicidio, in cui hanno perso la vita due giovanissime turiste, le sorelle modenesi Tania e Virginia Vignati. L’unica sopravvissuta è Doralice, amica d’infanzia di Lucia, da allora emigrata in Canada, dove vive con il peso della sopravvissuta. È il trauma della sua giovinezza: tre ragazze scomparse, proprio sulla terra di suo padre, proprio nel giorno in cui lei invece, allegra e ribelle, è andata al mare, senza dire nulla all’amica.
Il terreno in questione, di proprietà del padre di Lucia e di Osvaldo, padre di Doralice, interessa, oggi, a tale Gerì, proprietario di alberghi che si è già assicurato i terreni circostanti, intenzionato a creare un luogo per il turismo esperienziale che rischia di spazzare via la memoria di quanto accaduto. A Lucia e alla comunità ai piedi del Dente del Lupo resta, dunque, la responsabilità di preservare la memoria e di tramandarla alle prossime generazioni.
Il romanzo racconta un presente che si ripiega su un passato mai elaborato del tutto e riporta al centro della scena una terra abbandonata all’incuria, che sembra la metafora del paesaggio interiore dei protagonisti. Racconta il vincolo feroce delle radici, ma disconferma il mito del luogo di nascita come ambiente protettivo e protetto in cui nulla di male può accadere. Qui c’è la terra aspra della violenza che si prova a dimenticare, c’è la memoria di padri che non sanno dire l’affetto e contro cui le figlie ingaggiano una lotta per l’indipendenza, c’è la persistenza di forti legami comunitari e di un desiderio di altrove che conferisce, al restare e all’andarsene, risvolti esistenziali.
Preservare il Dente del Lupo e la memoria del delitto delle sorelle Vignati diventa importante perché, anche se le tracce di sangue sul terreno evaporano, la vergogna e le ferite restano impresse nella nostra memoria. I luoghi possono cambiare, ma sempre ci ricordano che non possiamo scappare dal passato, che resta aggrappato al nostro presente. E forse il superamento del trauma collettivo, mediante la difesa di quei luoghi, può indicare ad Amanda una direzione per la sua vita, così vuota e smarrita.
Donatella Di Pietrantonio si è molto probabilmente ispirata al Delitto del Morrone, avvenuto il 20 agosto 1997 ai piedi del Monte Morrone, dove a perdere la vita sono state le giovani padovane Diana Olivetti e Tamara Gobbo, uccise a colpi di pistola, mentre l’unica a essere sopravvissuta è stata Silvia Olivetti. L’autrice, originaria di Arsita, rielabora questa vicenda nel momento in cui dà a Doralice il ruolo di Silvia Olivetti, mentre Diana Olivetti e Tamara Gobbo sono trasposte narrativamente come le sorelle Vignati, che da padovane diventano modenesi. L’interesse dell’autrice, però, non risiede tanto nel crimine e nelle sue motivazioni, quanto negli effetti che ha avuto sul territorio e sulla sua comunità.
“L’età fragile” è pervaso dal dilagante senso di sconforto e di impotenza che caratterizza la narrazione di Lucia e non trova, nemmeno nel finale, alcuna risoluzione. La donna ha irrisolti relazionali praticamente con tutti: col marito che l’ha lasciata, con la figlia che non le parla, col padre che le impone ancora il suo volere, con l’amica sopravvissuta alla tragedia e da allora perduta. Sembra soffrirne, senza però agire in alcun modo per superare il problema e rimanendo sostanzialmente immersa in una sorta di apatia interiore e di stanchezza esistenziale; l’insieme del racconto trasmette un messaggio di forte pessimismo, poiché, in definitiva, l’autrice sembra dire che non esiste un’età senza paura e senza fragilità.
Il romanzo è costruito intorno a due racconti, quello del presente, che vede al centro la figlia Amanda e il destino del terreno abbandonato del padre di Lucia, e il fatto di cronaca, che ricostruisce il terribile episodio di violenza accaduto trent’anni prima. Ma i due racconti risultano poco coesi fra loro: l’unico elemento che li unisce è la terra, teatro dei fatti presenti e di quelli del passato. Altro elemento di coesione dovrebbe essere la protagonista stessa, attraverso la cui memoria conosciamo ciò che accadde allora, ma la narrazione di Lucia sembra anestetizzata, affronta tanti argomenti senza approfondirne nessuno: accenna al ruolo genitoriale, al rapporto di coppia, all’amicizia, al superamento di un trauma, allo scorrere del tempo, tutti temi impegnativi, che restano però sfiorati soltanto in superficie e con sguardo invariabilmente disilluso e quasi rassegnato.
Nessuno dei tanti fili narrativi avviati troverà, nel finale, una vera conclusione, lasciando aperte tante domande e al lettore la sensazione di un dolente incompiuto. Una scrittura scabra, essenziale, asciutta, dove la voce di Lucia ha un timbro monotono e intriso di malinconia. Un romanzo dove i protagonisti sono travolti da traumi e disgrazie grandi o piccoli e si guardano passare la vita davanti, nell’inedia e nell’incapacità di trovare una sola reazione, di fronte al mistero terribile della vita. Francamente un po’ pesante.
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