“Non nutro più alcuna speranza per il futuro del nostro popolo, se deve dipendere dalla gioventù superficiale d’oggi, perché questa gioventù è senza dubbio insopportabile, irriguardosa e saputa. Quando ero ancora giovane mi sono state insegnate le buone maniere ed il rispetto per i genitori: la gioventù d’oggi invece vuole sempre dire la sua ed è sfacciata.” (Esiodo – Le opere e i giorni – VIII sec. a.C.).
“Oggi il padre teme i figli. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi, gli allievi insultano i professori; i giovani esigono immediatamente il posto degli anziani; gli anziani, per non apparire retrogradi o dispotici, acconsentono a tale cedimento e, a corona di tutto, in nome della libertà e dell’uguaglianza, si reclama la libertà dei sessi.” (Platone – Repubblica – IV sec. a. C.)
Interessante, no? Togliendo i riferimenti delle citazioni si potrebbe pensare che si tratti dei brontolii attuali di qualche vegliardo del secolo scorso, e invece non è così. Avendo la costanza e l’interesse per una ricerca più raffinata, si potrebbero trovare pensieri analoghi lungo tutta la storia dell’Occidente, fino ai giorni nostri, (e probabilmente anche dell’Oriente, ma lì non mi avventuro).
La riflessione, ovvia, è che ciascuna generazione ha sempre criticato e guardato con disapprovazione quella successiva, che, per affermarsi, doveva affrontare il suo inevitabile conflitto generazionale, conflitto che, fino a qualche decennio fa, avveniva soprattutto tra le mura di casa, quando il figlio, raggiunta l’adolescenza, doveva crescere “per trasgressione e per opposizione”, confrontando in particolare gli aspetti normativi della famiglia, le regole, di cui il padre era il supremo detentore.
Sto semplificando, inevitabilmente, e generalizzando, ma mettere indietro l’orologio per simulare l’innocenza di un ritardo nel rientro a casa, salire in due in motorino, fumare o mettersi il mascara di nascosto, erano le piccole trasgressioni della mia generazione; poi ce n’erano di più gravi e, purtroppo, anche di gravissime, ma il percorso era chiaro: o passavi di lì o non diventavi grande.
Adesso è tutto molto più confuso; famiglie sempre più affettive e meno normative, solo in piccola parte rappresentano un ostacolo con cui confrontarsi e forse questo disorienta i ragazzi stessi. Non intendo dare giudizi e la pedagogia non è matematica, le certezze sono poche, alcune però, a mio avviso, sono imperiture. I giovani (specie i figli, ma anche gli allievi o i ragazzi in generale) sentono chi siamo molto più di quanto sentano quello che diciamo e questo può essere scomodo, ma anche molto gratificante. Modelli adulti positivi rimangono necessari in adolescenza, possibilmente dotati di coerenza e autorevolezza. Chi ha mai detto che sia facile.
Comunque sia, la cosa che mi incuriosisce, oggi, è il corto circuito che si è creato, rispetto alla questione generazionale, tra privato e pubblico. Se nel privato il conflitto sembra attutito dai nuovi e più morbidi modelli di famiglia, nel dibattito pubblico, al contrario, il conflitto sembra inasprito, o, (e questa precisazione mi pare doverosa), i media soffiano sul fuoco di questa tendenza, quasi ci fossero fazioni contrapposte.
Curiosando sui social ho trovato addirittura qualcuno che redarguisce i boomers nostalgici, colpevoli di intenerirsi coi propri ricordi di giovinezza, come se dire “ai miei tempi…” (o pensarlo) fosse, di per sé, un’inaccettabile critica ai ragazzi di oggi. Così come ho visto, in questi giorni drammatici, chi sventola post che ritraggono giovani impegnati a spalare fango nelle zone alluvionate della mia regione, come dire: “Guardateli, altro che bamboccioni, altro che sdraiati!”.
Penso che dobbiamo proprio aver perso la bussola. Siamo afflitti dal paradigma della polarizzazione, le cose sono bianche o sono nere, e ogni discorso è affrontato in termini di lotta: torto o ragione, si vince o si perde, come se davvero la realtà fosse così semplice.
I ragazzi che spalano il fango in Romagna aprono il cuore e sono commoventi, ma i ragazzi l’hanno sempre fatto; qualcuno ricorda le immagini della terribile alluvione di Firenze del 1966 e “gli angeli del fango”, giovani giunti da tutta Italia e anche dall’estero per salvare il salvabile dal disastro della meravigliosa città d’arte toscana? Non erano forse i boomers di oggi? E questo non dovrebbe dirci qualcosa? Forse non c’è bisogno di una catastrofe naturale, ma il messaggio è chiaro: i ragazzi non si tirano indietro se si sentono utili e parte di un tutto.
La parola che mi viene in mente è “cooperativo”, che non è un discount di sinistra, ma un termine che significa “fare insieme” e pare avere una funzione taumaturgica, ampiamente sperimentata in tutte le comunità educative, dal nido alle strutture di recupero per tossicodipendenti. É così che dovrebbero funzionare quelle che la scienza sociale chiama “agenzie di socializzazione”, ovvero famiglia e scuola, (cui aggiungerei sport e sociale), ma, nella nostra società iperconnessa e iperindividualista, siamo sicuri di fare ai ragazzi le proposte giuste? Non è forse di questo che, come adulti, dovremmo sentirci responsabili?
D’altra parte non riesco a vedere cosa ci sia di male nella memoria collettiva generazionale, fatta di credenze, convinzioni, simboli, miti, attribuzioni di senso; dire “ai miei tempi…” (o scriverlo sui social) può essere noioso o poco interessante, ma non è una colpa e tutti hanno diritto di conservare e accarezzare la propria epopea personale. Sappiamo benissimo che rimanere giovani significa rimanere curiosi e aperti, ma questo non impedisce di avere ricordi condivisi e di pensarli con tenerezza. Non mi pare un delitto.
Francamente non comprendo la contrapposizione generazionale rispetto a tematiche collettive che coinvolgono tutti, siano i cambiamenti climatici o le diseguaglianze sociali, ma non la capisco neppure come rivendicazione di un avvicendamento nella stanza dei bottoni che tarderebbe ad arrivare per i giovani, perché i dissennati, protervi inquinatori che li hanno preceduti non vorrebbero fare il santo piacere di togliersi dai piedi.
Ma quando mai l’Italia è stata un paese per giovani? E, d’altra parte, se mandi la gente in pensione a 67 anni, perché qualcuno che si è conquistato un ruolo importante e magari ben pagato dovrebbe andarsene anzitempo, con inevitabili perdite economiche?
Ogni generazione, volente o nolente, eredita nel bene e nel male le conseguenze dell’operato e della storia della generazione che l’ha preceduta: è talmente ovvio e banale che non merita nemmeno di parlarne. Ma attenzione, non solo nel male, anche nel bene.
I miei genitori non pensavano che i miei nonni fossero degli sconsiderati incoscienti, eppure avevano lasciato ai loro figli il mondo dopo la seconda guerra mondiale, lacerato dalla dittatura fascista e dall’occupazione tedesca, distrutto materialmente e moralmente, con ferite e cicatrici difficilmente guaribili, come dimostrano gli strascichi che ancora trasciniamo ai giorni nostri, su questioni non proprio secondarie come antisemitismo e antifascismo.
Il boom economico è stata una bella favola da raccontare ai posteri, con un mucchio di indicibili controindicazioni che solo qualche mente acuta e lungimirante aveva previsto, prima tra tutte quella di renderci un popolo di ottusi consumatori, proni al compulsivo bisogno dell’acquisto e indifferenti alle conseguenze distruttive di un sistema economico spinto al consumo di risorse, comprese quelle umane, per una sovraproduzione di beni mai vista prima.
Ma nessuno può negare che la vita degli Italiani sia cambiata di molto in quegli anni, e certamente in meglio, grazie a un benessere prima sconosciuto, agli elettrodomestici, alle automobili, alle vacanze al mare, ma anche all’obbligo scolastico fino alle medie, al divorzio, alla modifica del diritto di famiglia, alla chiusura dei manicomi, al sistema sanitario nazionale. Le cose non sono mai bianche o nere.
Mia madre adorava la plastica: era indistruttibile, conservabile, lavabile, multifunzionale, colorata, pulita e moderna; certamente non le passava nemmeno per la testa che quell’indistruttibilità potesse essere un danno enorme per il pianeta; bisogna fargliene una colpa? Per le donne della sua generazione la plastica fu un progresso, come i tessuti sintetici, le calze di nylon o la lavatrice”.
Sono cresciuta ai tempi delle stragi fasciste di cui ancora cerchiamo i mandanti, del terrorismo che ha lacerato la coscienza del paese, dei governi grigi e seri che sembravano perbene e invece non lo erano affatto. Nel mondo del lavoro per secoli mi hanno chiamato signorina e poi signora, invece di dottoressa, perché sono donna, anche se ho tre lauree e sono stata per anni responsabile di decine di dipendenti. Ma non ho mai pensato che fosse colpa di mia madre e di mio padre o della loro generazione, anzi, ho sempre creduto che, con tutti i loro limiti, avessero fatto del loro meglio.
Apre il cuore che i giovani siano pieni di speranze e di ideali e che siano disposti a lottare per raggiungerli; è il loro tempo ed è confortante che si veda rinascere nelle giovani generazioni una coscienza sociale e ambientale che sembra capace di disegnare un futuro diverso, anche a costo di scardinare certezze che sono per secoli parse inamovibili. Ma dare gambe al futuro non significa additare i colpevoli di tutti i mali del presente, come dire che finché questi non se ne vanno è chiaro che non cambierà mai nulla; significa invece uscire dalla logica dell’attivismo come testimonianza e sporcarsi le mani con la realtà, entrare nel sistema, faticare, negoziare, scendere a patti, perché non bastano gli slogan o la zuppa contro le opere d’arte, giusto per farci inutilmente inorridire.
Quando si parla di generazioni, come ci dice l’etimologia, si fa inevitabilmente una generalizzazione: sono generalizzazioni le citazioni di Esiodo e di Platone che ho riportato all’inizio dell’articolo, e operiamo una generalizzazione quando diciamo “i giovani d’oggi”, oppure “i boomers”: si tratta di soggetti collettivi in realtà indefinibili con precisione; per questo sarebbe opportuno evitare i giudizi generazionali e provare a osservare la realtà con maggior discernimento.
Essere giovani non è un merito, come non è un demerito non esserlo più e il discorso vale anche viceversa. L’età è una condizione casuale, del tutto effimera e, se qualcuno pensa che per i ragazzi delle generazioni precedenti sia stato tutto facile, forse dovrebbe approfondire e ricredersi: ognuno ha ereditato il tempo che gli è stato dato di vivere, senza meriti né demeriti per questo, a ciascuno spetta poi di impiegarlo nel miglior modo possibile; ma trovare il proprio posto nel mondo non è mai stato facile per nessuno, in nessun tempo; certo non è addossando colpe alle generazioni precedenti che si costruisce il sostegno delle proprie ragioni per oggi e per domani.
Altro è, come adulti, genitori, insegnanti, professionisti che a qualunque titolo operano a contatto con infanzia, adolescenza e giovani, chiedersi se abbiamo fatto e facciamo, per le giovani generazioni, tutto il possibile, non per spianargli la strada, ma per aiutarli a diventare abbastanza solidi da spianarsela da soli. Una strada che non somiglierà alla nostra e che, forse, non saremo nemmeno in grado di comprendere del tutto, perché il tempo dei genitori non può essere il tempo dei figli; da Esiodo in poi.
“A ciascun periodo della vita è stata data la sua opportunità, in modo che la debolezza dei bambini, l’irruenza dei giovani, la serietà dell’età di mezzo e la maturità della vecchiaia abbiano ciascuna la sua caratteristica naturale, che deve essere apprezzata a suo tempo” (Cicerone – “Cato Maior de senectute” – 44 a. C.)
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