È sveglia da un pezzo, anche se non è ancora mattina. Ha provato a girarsi nel letto, a tenere gli occhi chiusi, ma lo sa che è inutile, il sonno non tornerà. Scalcia le coperte in fondo ai piedi e si guarda intorno, cercando di abituare la vista all’oscurità. La stanza è irriconoscibile, ci sono cartoni dappertutto e valigie, fagotti, borsoni. È il giorno del trasloco.
Si alza avanzando cauta per non inciampare sul pavimento ingombro; nella penombra raggiunge la finestra e tira su la tapparella, ma la stanza resta buia perché fuori è ancora notte; cinque e venticinque dice il quadrante luminoso della sveglia, sul comodino. Non ha voglia di luce elettrica e ha bisogno di un caffè.
Nell’oscurità a cui si sta abituando raggiunge la cucina: non le servono gli occhi, conosce ogni angolo, la posizione di ogni arredo, il numero dei passi da qui a lì. I mobili sono tutti vuoti e anche la dispensa, ma la tazzina l’ha preparata ieri sera, con un poco di zucchero sul fondo e il cucchiaino per mescolare, la moka è già pronta sul fornello. Deve solo accendere la fiamma e aspettare che inizi a borbottare. Non si è mai abituata alla macchinetta, è inutile, il caffè viene diverso.
Guarda lo smartphone mentre sorseggia dalla tazzina, gustando il dolceamaro sulla lingua, quel sapore di mattina, di giorno appena nato. Non ci sono nuovi messaggi. Federico a quest’ora dorme della grossa; il dispositivo segnala che si è collegato l’ultima volta ieri sera alle ventitré e quarantacinque, quando le ha mandato la buonanotte.
Federico è la cosa più bella che poteva capitarle, ma è così poco avvezza alle cose belle che è rimasta diffidente per quasi un anno; per fortuna lui non ha mollato. Sorride da sola come un’adolescente. Invece ha quarant’anni. Le piace dirlo e anche pensarlo: quarant’anni; un numero così rotondo, così pieno di significati, chissà poi quali sono. Se li immagina densi, i suoi anni trascorsi, fatti di una sostanza vischiosa in cui è rimasta intrappolata, come un insetto nel miele e la trappola ha la forma di questa casa in cui abita da quando è venuta al mondo.
Non sa bene cosa vuol dire abitare; le è sempre sembrato di averle addosso quelle quattro stanze, come un vestito troppo stretto che non si può togliere, la camicia di forza della sua infanzia, le bende della sua giovinezza di mummia; non un palcoscenico, ma l’unico possibile orizzonte del suo sguardo, il vetro attraverso cui conoscere la vita e il mondo e gli altri: non è mai esistito un altrove qualsiasi.
Non riesce a immaginare di dormire e svegliarsi in un letto diverso, di fare la doccia in un altro bagno, di vedere i suoi abiti in un altro armadio; non riesce a immaginare di aprire gli occhi al mattino e non vedere la lama di luce che accarezza lo spigolo del muro e fa danzare la polvere, perché quello che ha intorno non sono pareti e mobili e cose, ma il cemento di cui è fatta la sua vita.
Oggi se ne andrà davvero, lascerà la casa per sempre. E quello che le strizza lo stomaco, non è la convivenza con Federico che avrà inizio questa sera. Quello che davvero le toglie il fiato è andarsene da lì, chiudersi per sempre la porta alle spalle e non avere più il diritto di riaprirla, abbandonare sul pavimento, come rifiuti inutili, gli stracci dei suoi ricordi.
Più che un trasloco sembra una fuga, è eccitata come un’adolescente che scappa dalla finestra per andare a ballare, ma il timore di essere scoperta le guasta la festa, le mette paura. Sta forse cercando di ingannare il destino? E sua madre? Cosa direbbe sua madre?
Si è sentita orgogliosa la prima volta all’agenzia immobiliare, quando ha preso la decisione di vendere; l’aveva pensato fin da quando, dopo la morte della mamma, l’appartamento era diventato di sua proprietà, ma non era certa di averne il coraggio. Invece, a ogni visita organizzata per mostrare la casa ai possibili acquirenti, si è scoperta più determinata. Ma, fin lì, era facile, una soddisfazione vigliacca, perché si poteva ancora tornare indietro.
Credeva che il distacco l’avrebbe sentito il giorno del rogito di vendita davanti al notaio, ma non è stato così, al contrario, di quell’incontro ricorda soprattutto la curiosità verso quella coppia di giovani estranei che avrebbero abitato, in futuro, dentro al suo passato, cambiandone le sembianze, riempiendolo di immagini incongrue, di nuovi odori e di nuovi fiati. Quel pomeriggio si era sentita schiacciata dal senso di colpa; le era venuto un gran mal di testa, e la notte aveva sognato che le pareti della sua camera si stringevano fino a stritolarla.
Sorseggiando il caffè ancora fumante, mentre un po’ di luce inizia a filtrare dalle finestre, si guarda intorno, fa qualche passo, apre le porte, respira l’odore delle stanze. Ce l’ha dentro come il sangue, questa casa, come i tendini e le ossa: sa tutto senza bisogno di vedere o di sentire: ogni scheggiatura delle mattonelle del pavimento, ogni graffio sui muri, non sono scheggiature o graffi, ma sono immagini, disegni, figure, che, se chiude gli occhi, non sfumano via nella loro irrilevanza, ma restano impressi, come se avessero un senso, come se fossero volti familiari.
Quando è morta la mamma, dieci anni fa, è rimasta da sola a custodire i giorni, i ricordi, i segreti e, da trappola che era, la casa si è fatta tempio. Ha sempre saputo che la casa cercava di parlarle, di farsi amare, e ora non riusciva a non pensare ai fantasmi: perché sua madre non avrebbe dovuto ritornare dalla morte, a visitare quel luogo dove, in un tempo lontanissimo, era stata felice? Le pareva che gli spettri del passato fossero sempre intorno a lei. C’è voluto l’inaspettato amore di un uomo per convincerla che non poteva rimanere ancora, non poteva continuare a leggere lo stesso capitolo del libro, senza mai voltare pagina.
Quando è morta la mamma, non ha pensato subito di andarsene; che quella fosse sempre la sua casa le pareva la sua unica certezza, anche se gli altri non c’erano più. Non si è mai trasferita nella camera matrimoniale che era stata dei suoi genitori; è rimasta nella sua stanza di bambina e poi di ragazza e di donna, come fosse il suo unico posto nel mondo, il suo ramo dell’albero, l’unica casella sulla scacchiera della vita a cui avesse davvero diritto.
I suoi sono ricordi usati, logori, per quante volte se li è rigirati nella mente, insistenti e fastidiosi, a volte scacciati, più spesso evocati, in una ripetizione ossessiva come le parole di una preghiera, nell’illusione di poterli finalmente afferrare e svuotarli del loro fetido contenuto, come si tolgono le interiora dal pesce prima di cucinarlo.
Il caffè è finito, col cucchiaino raccoglie lo zucchero in fondo alla tazzina come faceva da bambina. Nel bagno si rassegna ad accendere la lampada sopra al lavandino e a incontrare il suo viso assonnato allo specchio. Si spazzola i capelli, infila una tuta di felpa che sta appesa alla maniglia della finestra; proprio come faceva sua madre, che alla stessa maniglia appendeva ogni mattina la camicia da notte.
*****
Da piccola le avevano raccontato di un tempo felice, di cui non poteva avere memoria; un tempo in cui i suoi genitori erano stati giovani e innamorati e avevano dato alla luce il loro primo figlio, suo fratello Antonio, dodici anni più grande di lei. Era sempre stata gelosissima di quella lunga vita familiare che non le apparteneva, e suo fratello l’aveva consolata col suo affetto rude di bambino, raccontandole gli aneddoti di quei giorni lontani, sempre gli stessi e probabilmente inventati, ma non importava, era un modo per appropriarsi un poco di quella felicità che l’aveva esclusa.
Faceva la prima elementare da poche settimane, quando Antonio, infilando la testa nella porta della sua camera, aveva chiesto permesso, con la faccia allegra che ultimamente aveva di rado. Lei festeggiava ogni sua attenzione come un regalo di Natale e se l’era fatto sedere accanto sul letto, mostrandogli, tutta orgogliosa, i suoi quaderni nuovi e il diario con la copertina rosa e le bamboline disegnate. Ma sentiva che qualcosa non andava. Lui le aveva preso le mani e le aveva parlato da grande.
«Mi hanno preso all’università» le aveva detto, «è la mia grande occasione, è importante, perciò domani parto.» Lei l’aveva guardato con gli occhi immensi. «Perché? Dov’è l’università?» aveva chiesto già sapendo che avrebbe odiato la risposta. Lui aveva abbassato lo sguardo per un attimo, come se fosse dispiaciuto, ma poi l’aveva rialzato e si capiva che invece era contento. «È a Milano» aveva detto con una voce adulta, diversa dalla sua, «perciò andrò a vivere là. Ma verrò sempre a trovarti, te lo prometto» aveva aggiunto con tono più allegro, «e tu potrai usare la mia stanza ogni volta che vorrai, potrai giocare sul tappeto e leggere i miei libri e i miei giornalini, potrai persino aprire i miei cassetti e curiosare dove vuoi.»
Mentre parlava l’aveva rovesciata sul materasso facendole il solletico, come faceva sempre, ma si capiva che non aveva voglia, voleva solo sentirla ridere; avevano giocato un po’, ma lei si sentiva strana, pensava che non le bastava di poter curiosare nella stanza di suo fratello, al contrario, le pareva che averne il permesso togliesse in fondo tutto il piacere.
Antonio, a un tratto, era tornato serio. «Vieni» le aveva detto, «ti faccio vedere una cosa» e, afferrata la sua manina, l’aveva accompagnata in camera sua. La conosceva benissimo, quella camera, perché ci metteva il naso appena poteva, più curiosa di una scimmia. Era la tana scalcagnata di un maschio adolescente, con antiche tracce dell’arredamento dell’infanzia mescolate a un disordine epico; ora invece sembrava estranea, così linda e quasi vuota. Era stato quell’ordine insolito a darle il senso angosciante e ineluttabile della separazione da Antonio.
Lui aveva aperto le ante un po’ sbilenche dell’armadio azzurro, e, con fare cerimonioso che voleva essere scherzoso senza riuscirci, allungando un braccio in un mezzo inchino, aveva detto: «Ecco, ti presento Ajab.» L’unica cosa che aveva pensato era che non aveva mai visto Ajab perché di solito, appesi davanti, c’erano i vestiti di Antonio, mentre ora l’armadio era vuoto. Automaticamente aveva girato il collo verso una grande borsa da viaggio che stava sotto il tavolo e le era venuto un nodo in gola.
«Ehi non distrarti, è una cosa importante.» Antonio si era chinato su di lei, la faccia a pochi centimetri dalla sua, respiravano la stessa aria: non avrebbe mai dimenticato quegli occhi intenti, da uomo, che non gli aveva mai visto. «Ajab sarà il tuo amico e ti proteggerà; se in casa succede qualcosa di brutto, tu vieni qui e ti chiudi nell’armadio, così sarai al sicuro. Vieni, proviamo.» L’aveva fatta sedere sul ripiano di fondo, le spalle appoggiate alla parete laterale dell’armadio vuoto, le gambe rannicchiate contro il petto, poi aveva chiuso le ante. «Ecco fatto» aveva detto soddisfatto, «e se qualcuno viene a cercarti, dovrà fare i conti con Ajab.»
*****
Del tempo più lontano di cui conservava memoria le rimaneva il suono della voce di sua madre prima che si incrinasse, il suo odore di buono, l’immagine bionda e la pelle di latte; ricordava il loro rito serale, prima di andare a dormire, quando perlustravano insieme la sua stanza per essere sicuri che non ci fossero mostri nascosti da qualche parte.
Per compiacere la mamma, fingeva di sentirsi rassicurata, ma non era vero e il buio la terrorizzava. Per difendersi, appena spenta la luce e tirate le coperte fin sopra la testa, stringeva gli occhi e rimaneva immobile, perché era sicura che questo la rendesse invisibile. Se il sonno tardava ad arrivare, l’immobilità forzata poteva diventare una vera sofferenza, ma lei non cedeva: preferiva i muscoli intirizziti piuttosto che essere scoperta da qualunque cosa cattiva che si agitasse nell’oscurità.
Non sapeva dire quando le cose fossero cambiate; i bambini subiscono la vita dei grandi senza comprenderne del tutto le curve e i sobbalzi. Si era accorta che Antonio era sempre arrabbiato, ma pensava che fosse per la scuola, o per la sua vita da grande che lo portava fuori di casa, lontano da lei, in luoghi che non sapeva immaginare e di cui andava cercando le tracce, di nascosto, nella sua stanza. Lui usciva sempre più spesso, senza salutare e lei cercava di rimanere sveglia per sentirlo rientrare, ma poi la paura del buio chiamava il sonno e alla fine si addormentava.
Con la scusa della scuola e degli allenamenti di pallone, Antonio sedeva raramente a tavola con la famiglia e i pasti erano diventati silenziosi di un silenzio strano, che non le piaceva; forse per l’assenza di suo fratello, mamma e papà non si parlavano più, non scherzavano, non volevano più stare aggrovigliati con lei sul divano a farsi il solletico. Erano diventati taciturni e scontrosi e, appena finito di mangiare, la mandavano in camera sua o le permettevano di vedere la TV da sola, cosa da sempre proibita. Ma non era affatto divertente, non era come aveva immaginato.
Più avanti erano iniziate le liti. Cominciavano con sibili di serpenti che le coprivano braccia e gambe di pelle d’oca, poi le voci si facevano più nitide, e, deformate dalla rabbia, si accavallavano con furia crescente, trasformandosi in urla. Allora si rifugiava nella sua stanza e, camminando su e giù, si tappava le orecchie con le dita in modo intermittente, così da non poter decifrare il significato delle parole gridate da mamma e papà che attraversavano i muri. Quella le pareva l’estrema difesa, l’unica possibilità di fare finta che non stesse accadendo davvero. Ma non funzionava. Di solito, alla fine, arrivavano rumori terribili di mobili urtati, di oggetti scagliati, di qualcosa di infranto sul pavimento.
*****
Finito di bere il caffè, sciacqua in fretta la tazzina sotto l’acqua corrente, poi l’avvolge nello strofinaccio con cui l’ha asciugata e la depone nello scatolone ancora aperto in cui sono già imballate le altre stoviglie. La moka, una volta vuotata, trova posto in un altro cartone. Guarda l’orologio, ormai manca poco.
Accende una sigaretta e socchiude il vetro della finestra. Adesso è fiera della decisione presa, sa che è quello che deve fare, ma il distacco le riempie la bocca di amarezza e vorrebbe che fosse già sera, e nuove emozioni sconosciute si sostituissero a quelle di adesso, che la fanno sentire come un disertore.
C’erano stati mesi o forse anni di liti fra i suoi, sere in cui anche tapparsi le orecchie non bastava a tenere lontano la rabbia e il rancore che allagavano quelle stanze come miasmi putridi. Immersa dentro quel livore che le colava addosso come un veleno, era cresciuta, quasi senza accorgersene; come succede quando si diventa grandi, la vita fuori era diventata pian piano sempre più importante: la scuola, lo sport, le amicizie, ma la casa la risucchiava, l’agguantava ogni sera coi suoi tentacoli viscidi, la teneva legata e le cose di fuori sbiadivano, perdevano di senso.
Antonio, stabilitosi a Milano, era tornato di rado a trovarla e, anche se ogni volta le portava un regalo, qualcosa fra loro sembrava rotto senza rimedio e il fatto che entrambi continuassero a crescere in luoghi lontani e separati, pareva aumentare la loro distanza. Il ruolo della sorellina adorante e del fratellone protettivo era solo un ricordo. Stavano diventando due adulti con poco da dirsi: lui aveva avuto il coraggio di non tornare, lei era rimasta intrappolata nella tela di ragno.
La prima volta che si era chiusa nell’armadio di Antonio era ancora piccola, ma si era sentita ugualmente una stupida; si era consolata pensando che nessuno l’avrebbe mai saputo. Del poster attaccato con lo scotch sulla parete di fondo, aveva imparato a conoscere ogni singolo dettaglio, ogni segno, ogni scoloritura della stampa. Prima di essere il suo protettore, molti anni prima, Ajab il leone era stato l’attrazione di un circo di periferia, di cui la locandina illustrava le meraviglie, mostrando il felino imponente, a cui un artista da quattro soldi aveva dipinto una corona sulla folta criniera, trasformandolo nel re della foresta.
Era una cosa davvero stupida, lo sapeva, ma non le importava. L’armadio di Antonio era il suo porto sicuro, dove rinchiudersi per tenere fuori le liti, le urla, il rumore delle stoviglie gettate in terra e poi, negli anni che erano seguiti alla separazione dei suoi genitori e alla sparizione di suo padre dalla sua vita, era stato l’esilio dal dolore sfinito di sua madre, da quel suo trascinarsi affranto che invadeva la casa, il corpo sfiorito, il viso smunto, mentre la depressione la ingoiava goccia a goccia, fino alla fine. E il leone era stato sempre lì, impavido, a ripararla dal brutto della vita, un amico muto, un amico di carta, il più fidato, il più segreto.
Aveva continuato a farlo anche da grande, quando ormai le sue lunghe gambe impedivano alle ante dell’armadio di chiudersi, ma non contava, il rifugio funzionava anche così. Non che davvero le impedisse di sentire quel che accadeva nell’appartamento, di cui era in grado di decifrare ogni fruscio, ogni sussurro, ma era una specie di oasi, di minuscola consolazione, il buono che Antonio le aveva lasciato.
Da piccola aveva fantasticato che Ajab le parlasse o la tenesse al caldo con la sua pelliccia quando la paura era troppa e non voleva sapere cosa accadeva là fuori, ma anche dopo che il pensiero magico dell’infanzia l’aveva pian piano abbandonata, non aveva perso l’abitudine: se si sentiva triste, o anche solo se voleva riflettere, era lì che andava a sedersi, nell’armadio vuoto ch’era stato di Antonio, dove non poteva succederle nulla. Non c’era niente di male, in fondo, e non l’aveva mai detto a nessuno.
*****
Una scampanellata imperiosa lacera la quiete del primo mattino. I traslocatori entrano tutti insieme biascicando un buongiorno, senza chiudersi la porta alle spalle, portando dentro l’odore freddo di fuori. Si muovono per la casa come grossi insetti, veloci, precisi, come se la conoscessero a memoria anche se non l’hanno mai vista. Forse per i traslocatori le case sono tutte uguali. Sono così svelti che non riesce nemmeno a contarli, mentre, sotto i movimenti decisi delle loro braccia forti, la casa pare sbriciolarsi per essere ingoiata pezzo a pezzo dalla tromba delle scale, perdendo il suo sentore chiuso di tana.
È tutto così rapido che non riesce a pensare. Dovrebbe provare sollievo e invece si sente inquieta, vorrebbe fermarli, o almeno chiedere di andare più piano, di darle il tempo di rendersi conto. Intanto le stanze si svuotano, mostrando una nudità nuova e indecente, coi segni scuri dei quadri sul muro e le impronte dei piedi dei mobili sul pavimento.
Uno degli uomini è fermo nell’atrio e sembra guidare il lavoro degli altri, come dirigesse un’orchestra; è un omone grande e grosso, con dita come rami d’albero e la faccia da bambino. Ha in mano un foglio stampato, diviso in due colonne: la nota dei pochi pezzi in buono stato, da portare nella casa di Federico, e quelli destinati direttamente alla discarica.
«Mi scusi, mi scusi», le esce di bocca come un rantolo, senza che l’abbia pensato davvero. Si avvicina all’omone e prende coraggio, in fondo è roba sua. «In quella stanza» dice indicando la camera di Antonio, «l’armadio, lo vede l’armadio azzurro? Quello va al nuovo indirizzo.» Si accorge con stizza che le è uscita una vocina sottile, da bambina.
L’uomo la guarda dall’altezza dei suoi quasi due metri e il suo sguardo è gentile, poi, col dito enorme, segue una riga sulla sua lista. «Impossibile signora» risponde con accento straniero, «non è nell’elenco.» Lei resta immobile, non trova altre parole, la risposta dell’uomo le pare senza appello. Potrebbe staccare ciò che resta del vecchio poster e conservarlo in qualche cassetto, ma l’idea non acquista consistenza nella sua mente, subito evapora via.
Gira lo sguardo nella casa vuota, estranea e indifferente: non è più il suo guscio di lumaca; è solo un appartamento invecchiato, coi segni dei mobili sulle pareti, i pavimenti rovinati, gli infissi da riverniciare, le porte con la laccatura sbreccata. Le sembra di osservare un cumulo di macerie. Sua madre non tornerà a visitare quel luogo ormai irriconoscibile, ne è sicura.
Gli uomini scendono le scale mugugnando un saluto. Esce sul balcone per guardarli mentre caricano gli ultimi mobili. L’aria fresca del mattino le lava la faccia, respira a fondo, si riempie i polmoni. È finita, non c’è più spazio per i ripensamenti. Si sente di colpo giovanissima, come se anche i suoi anni fossero sul camion, assieme al resto. Addio Ajab, amico mio, addio. Non posso fare più nulla per te, non sei nell’elenco.
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