di Maria Laura Zazza
“Quartetto per voci soliste” di Flavia Giovanardi: un romanzo sull’incomunicabilità e sull’illusione della realtà, in un gioco di specchi inafferrabile.
Quando è nata la passione per la scrittura e quando hai deciso di pubblicare il tuo primo libro?
La passione per la scrittura è nata insieme a quella per la lettura: due cose che amo da quando ho imparato a farle. La scuola mi ha dato una formazione solida in questo senso, facendomi amare la letteratura. Sono stata e sono una lettrice appassionata, ma mettersi dall’altra parte e diventare scrittrice è un’esperienza tutta particolare, viscerale e affettiva, e anche tecnico-pratica: bisogna sentire di avere una storia da raccontare e avere la disciplina e la costanza di portare a termine il lavoro. Io sono una perfezionista, leggo, rileggo, cambio le parole, le virgole: scrivere mi rende felice, ma mi impegna molto. Al termine della stesura del mio primo libro, all’idea di essere pubblicata, ho dovuto vincere una sorta di pudore, di ritrosia, perché l’autore, nel libro, svela sempre sé stesso, anche se racconta vicende altrui o di fantasia: io sono di carattere riservato e per me si è trattato di un passaggio importante.
Il mio primo romanzo, Il canto dell’oca, è uscito nel 2018 e nasce soprattutto dall’esperienza come mediatrice familiare; nell’ambito della mediazione, avevo incontrato molte coppie in difficoltà, ognuna con la sua storia unica eppure, per tanti versi, simile alle altre. Volevo scrivere di donne e uomini, di amori e abbandoni, di figli e famiglie e, inizialmente, avevo pensato a un saggio, ma poi il romanzo mi è parso più adatto a scatenare emozioni, a favorire l’identificazione coi personaggi, a coinvolgere profondamente il lettore: così ha preso forma la storia che volevo raccontare.
Hai tre lauree, una vita molto piena e dinamica tra lavoro e famiglia, la tua vita ti offre spunti narrativi per scrivere?
Sicuramente la mia formazione e l’esperienza professionale e di vita rappresentano risorse cui attingere per raccontare, ma, in mezzo a tante storie possibili, deve prendere forma una storia precisa, che sia capace di emozionarmi; solo allora può avere senso immaginare di scriverla.
Mi è capitato spesso di leggere di scrittori che raccontano la vita autonoma dei loro personaggi, quasi creature in carne e ossa, del tutto indipendenti dal loro creatore; confesso che, in passato, mi sono spesso sembrate affermazioni un po’ sopra le righe. Invece, dopo il primo romanzo, la cui gestazione non è stata lineare ma si è sviluppata per progressive approssimazioni, in realtà è successo anche a me che un personaggio “mi venisse a trovare”, ovvero si presentasse alla mia fantasia con caratteristiche già piuttosto delineate e una storia da raccontare.
Certamente la realtà circostante è piena di spunti, ma magari l’idea arriva da dove non te l’aspetti: se diventa insistente e sempre più precisa, allora può valere la pena di approfondire e vedere cosa può nascere.
Cosa hai voluto trasmettere attraverso i quattro personaggi del tuo romanzo Quartetto per voci soliste?
Quartetto per voci soliste è un romanzo sull’incomunicabilità e sull’illusione della realtà. Qui la forma è più che mai sostanza, nel senso che la struttura del racconto, divisa in capitoli in cui si alternano le voci dei quattro protagonisti, è di per sé la metafora delle quattro storie parallele che pure costituiscono un’unica narrazione e un’unica vicenda. La parola che, a mio avviso, descrive chiaramente l’organizzazione del racconto è “frammentazione”: ogni voce porta il suo frammento a una narrazione che risulta frammentata pur essendo unitaria. I quattro personaggi sono uniti da quanto è accaduto e accade nelle loro vite, ma sono irrimediabilmente soli nel modo in cui ciascuno vive e metabolizza gli eventi.
Spesso chiamiamo realtà il nostro mondo interno, ovvero il modo in cui elaboriamo e archiviamo gli stimoli che vengono dall’esterno e raramente siamo consapevoli di quanto questa modalità di pensiero ci impoverisca, impedendoci di vedere la ricchezza della molteplicità e delle differenze, e ostacolando l’autenticità nel rapporto con l’altro, che può svilupparsi solo se si rimane aperti a letture del reale anche molto diverse dalle nostre o, comunque, inaspettate.
Tutti indossiamo molte maschere e, a volte, preferiamo non vedere, nell’altro, ciò che può farci paura o non essere in linea con l’immagine che ci siamo fatti. In Quartetto per voci soliste, tutto questo non accade fra estranei, ma fra persone che hanno vincoli di sangue e di affetto, a sottolineare come l’autenticità vada ricercata soprattutto nella vicinanza dei rapporti più stretti, spesso i più complessi.
Il tuo è un libro carico di emozioni, sentimenti, stati d’animo che si intrecciano fra loro: quale è stato il protagonista più complesso da narrare e a quale ti senti più vicina?
La costruzione dei personaggi è stata la parte più difficile della stesura, non tanto nell’ideazione, quanto rispetto alla resa sulla carta. Ciascuno di loro ha un lato luce e un lato ombra che deve emergere, nella logica del racconto, con tempi e modi differenti: è stato estremamente complesso portare avanti parallelamente i quattro fili delle narrazioni dei quattro protagonisti, individuando, per ciascuno di loro, il tempo giusto per lo svelamento degli aspetti nascosti, e cercando di creare una coerenza complessiva della storia.
Il più difficile da rendere, per me, è stato Stefano, perché il suo lato ombra è molto profondo e doloroso e la sua maschera molto efficace: dovevo raccontarlo senza diventare la sua psicologa. La protagonista che sento più vicina è Lara; di lei mi emoziona tutto, la ribellione, la rabbia, il disincanto, la lucidità; non è nata come la mia preferita, ma lo è diventata, mentre con Alba è stato l’inverso. Inizialmente la più “facile”, perché più simile a me per genere e per età, lungo la stesura l’ho sentita sempre più distante.
Fabrizio, infine, è come un naufrago che vuole sopravvivere ad ogni costo, attaccato alla vita con unghie e denti, ma ha una sua ruvida tenerezza che mi commuove. Insomma, li amo tutti e quattro e non potrebbe essere altrimenti.
Mi ha colpito la figura di Lara, figlia ribelle, spregiudicata, e il suo profondo risentimento verso sua madre. Parlaci di questo personaggio e cosa rappresenta.
Gli adolescenti sono faticosi e affascinanti, sono creature in divenire, fragili e pieni di spine come certe piante. Io provo un’immensa attrazione per tutto ciò che è in crescita e in trasformazione, stare vicino a qualcosa che cresce mi fa bene all’anima, perciò, al di là delle esperienze personali, mi sono occupata di infanzia e adolescenza a livello professionale. Un adolescente può esasperarti fino allo stremo e disintegrare il tuo senso di autostima e autoefficacia di adulto, il che può davvero essere molto difficile da sopportare. Se poi è un’adolescente oltremodo intelligente e lucida, come la mia Lara, allora essere l’adulto che le sta vicino può davvero non essere facile. Ma, in fondo, il suo non è che un grido di dolore, la sua non è che una difesa; i suoi genitori, travolti dalle loro vicende personali, hanno smesso di vederla, come lei stessa dice, e questa è la sua ferita.
Lara è la figlia “adultizzata” della coppia in separazione: poiché è sana, bella, brava a scuola e nella danza, mamma e papà vogliono credere che stia bene; forse davvero non vedono il suo dolore, o forse preferiscono credere che sia così. Gli adulti non sempre sono consapevoli di trasmettere ai figli o agli allievi ciò che sono e non ciò che dicono, e questa è una grande responsabilità, ma anche un’immensa possibilità. Mentre i suoi genitori non “vedono” Lara, troppo presi dai loro dolori, Lara invece “vede” benissimo loro.
Ho cercato di evitare, nella scrittura, qualsiasi atteggiamento giudicante, suggerendo invece una presa di coscienza: quando gli adulti soffrono, a volte non hanno forze sufficienti per prendersi cura del dolore dei più piccoli e questo accade tutti i giorni. Certo, Lara è un personaggio letterario, ma io la sua rabbia l’ho sentita e anche il suo ostinato bisogno di rimanere intera e di diventare grande, nonostante tutto.
Fra gli altri, affronti anche il tema della verità e delle maschere che spesso si è costretti a portare per sopravvivere alle situazioni e al peso del passato. Quale è il punto di vista che emerge dalla storia?
Ognuno di noi è figlio della sua storia e, soprattutto, di come questa storia è stata vissuta e interiorizzata; il passato fa parte di noi, non solo come memoria; il passato ci ha plasmato e trasformato in quello che siamo oggi, ma, soprattutto le esperienze più dolorose, possono lasciare tracce più difficili da elaborare e delle quali non andiamo fieri. Io credo che fare pace con la propria storia sia necessario per diventare adulti più integrati e risolti, ma ognuno lo fa come può e come sa.
Nella finzione letteraria del Quartetto, chi ha più difficoltà col proprio passato è Fabrizio, ma anche Stefano ha un retaggio familiare col quale non ha fatto pace; entrambi nascondono queste tracce nel lato ombra della loro personalità, ma in modo diverso: il primo attribuisce le responsabilità all’esterno e cerca di tagliare i ponti con ciò che lo turba, il secondo è più consapevole e più sofferente e scende a patti con la parte buia di sé, mettendo in campo il suo sapere medico e la sua disciplina personale. Alba, invece, si conosce poco e tende ad essere indulgente con sé stessa e con la sua storia.
Personalmente trovo il concetto di “verità” semplicistico e sopravvalutato; l’idea di poter conoscere tutta la verità su una persona ci sembra rassicurante perché usiamo un paradigma polarizzato e perciò il contrario della verità è la falsità, che tutti, giustamente, temiamo. Io credo che l’anima umana sia più complessa di così e che, nei rapporti umani, occorra soprattutto benevolenza: non è una forma acuta di relativismo morale, ma l’accettazione che, nella maggior parte dei casi, ognuno di noi cerca in buona fede di fare il meglio che può e dovremmo volerci bene per questo.
Questo è il tuo secondo romanzo, in cosa si distingue dal primo Il canto dell’oca?
Si dice che il primo romanzo sia sempre autobiografico; nel mio caso è perfetta la definizione (di cui non so citare la fonte e me ne scuso) secondo cui si tratta di “un’autobiografia di fatti mai accaduti”. Ne Il canto dell’oca, pur essendo di fantasia la vicenda narrata, il punto di vista è chiaramente il mio, il racconto è in prima persona, il ritmo ossessivo del pensiero, l’introspezione, il bisogno spasmodico di liberarsi dal labirinto della relazione tossica, quelli sono miei, mi rispecchiano in tutto.
In Quartetto per voci solistesono in qualche modo uscita da me e, probabilmente, anche se inconsapevolmente, l’artificio letterario delle quattro voci narranti è nato proprio per facilitare questo processo: mi sono calata in quattro personaggi diversi e ho lavorato molto su questo aspetto; all’inizio ho pensato di poter essere soltanto Alba, poi, in realtà, mi è piaciuto molto diventare anche gli altri tre. Certamente, nel secondo romanzo, ci sono sempre io, come sempre l’autore è dentro il libro, ma credo di avere fatto un passo verso una dimensione più letteraria.
Stai scrivendo altri libri?
Il mio terzo romanzo è ancora inedito, ma mi auguro che possa essere pubblicato in tempi abbastanza brevi. È ambientato negli anni ’50 del Novecento e la protagonista è una giovane donna anticonformista, non dico di più. Attualmente sto scrivendo una fiaba, ma per ora è poco più di un progetto. Inoltre ho il mio blog, che invito tutti a visitare, in cui pubblico articoli e racconti https://www.flaviagiovanardi.it/
L’intervista completa è disponibile ai seguenti link
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