Sembra che il termine Carnevale derivi dalla locuzione latina carnem levare, ovvero “togliere la carne”, riferito al giorno precedente la Quaresima, in cui cessava il consumo di questo alimento prelibato, con l’inizio del digiuno penitenziale. Le origini del Carnevale vengono fatte risalire al mondo antico pre-cristiano e precisamente ai riti propiziatori già conosciuti presso i Greci e i Romani, caratterizzati da gozzoviglie e licenziosità e dall’uso della maschera, a sottolineare come la festa rappresenti una realtà a sé, separata dalla quotidianità ordinaria e perciò da vivere sotto mentite spoglie, rendendosi irriconoscibili e godendosi l’irresponsabilità che ne deriva. Del resto, semel in anno licet insanire, dicevano i latini, una volta l’anno è lecito fare follie.
La tradizione, popolare e letteraria, che racconta di mondi alla rovescia, fa parte della cultura europea a partire dalla Grecia classica, passando per il Medioevo, fino all’età moderna. Gli elementi ricorrenti di queste tradizioni inscenano il capovolgimento delle relazioni sociali e dei rapporti di classe, la rivincita del popolino e degli ultimi, la satira sui ceti dominanti, il disordine che prevale sull’ordine: tutti aspetti che troviamo già nei Saturnali dell’antica Roma, fino alle Feste dei Folli e al Carnevale , spazi che accolgono i desideri ma anche le angosce dell’uomo, i suoi sogni irrealizzabili nella realtà, le voglie di riscatto e di rivalsa.
L’irrazionale attraversa da sempre la storia e il rapporto con esso connota le civiltà.
I Greci, celebrati per la razionalità della loro cultura, compresero presto che la follia, il rovescio della ragione, che chiamarono mania, poteva declinarsi in vari modi, che esplorarono attraverso i miti e il teatro, distinguendo una forma cupa e terrificante, portatrice di dissennatezza e violenza fino all’omicidio, da una condizione irrazionale che consente il contatto con la divinità, tanto che Platone, nel Fedro, scrive: “Siccome si allontana dalle occupazioni umane e si rivolge al divino, [il saggio] viene accusato dai più di essere fuori di senno, ma sfugge ai più che egli, invece, è invasato da un dio.”
Il dio può confondere o ispirare l’uomo e Platone descrive una follia “ispirata” che si distingue in forme diverse: la follia amorosa, accesa dalla persona amata, la follia profetica o mantica, in cui è il dio stesso a parlare e la follia poetica, ispirata dalle Muse, accostando così l’irrazionale ai momenti più alti della vita umana, come l’amore e l’arte.
Nel mondo antico, la follia era dunque legata al sacro, poiché la divinità entrava in contatto con gli uomini grazie all’intermediazione di veggenti e oracoli, destinati a vivere un’esistenza ai margini della società, ma onorati e rispettati per la loro sacra funzione. O, ancora, il divino veniva invocato mediante i riti misterici, come quelli dionisiaco – bacchici, praticati presso i Greci e i Romani, in cui si celebrava la follia iniziatica, con travestimenti, maschere, danze e sfrenatezze di ogni genere, fino all’ebbrezza e al furore, manifestazione del dio e ritorno all’istinto primigenio, soppiantato dalla più moderna civiltà dominata dalla ragione.
Ancora all’inizio del Medioevo, il folle era ammesso ai margini della comunità, a volte veniva allontanato e scacciato, ma la cultura del tempo gli accordava un ruolo di portatore di verità, seppure non ortodosse; la sua diversità gli consentiva uno status di straordinarietà, che gli permetteva di parlare senza censura e ne faceva un protagonista dell’immaginario collettivo e artistico del tempo.
In quella fase storica, nella concezione popolare, la follia è spogliata dalla negatività, dai lati oscuri, ed è legata alla festa e al riso. È nel Medioevo che nascono le Feste dei Folli, e si inventano personaggi e terre fantasiose, proiezione delle inquietudini e dei sogni della gente, intimamente legati alla follia, all’insensato, alla derisione. In tale contesto di matrice popolare, il folle assume il carattere comico del buffone, del giullare, ma anche quello salvifico e rituale della ribellione allo status quo: è colui che può permettersi di dire verità scomode persino ai potenti, anche se la sua incolumità non è certo garantita. È il rovescio della medaglia del potere, e alla follia è quindi riconosciuto uno spazio sociale.
I mondi alla rovescia rappresentati dalle Feste dei Folli e da analoghe manifestazioni popolari come il Carnevale, si nutrono delle istituzioni religiose, politiche, letterarie e culturali della loro epoca, mentre, al contempo, le negano o le contrastano con la parodia. La loro natura è, infatti, contraddittoria: da un lato mettono in scena la trasgressione e una forma di ribellione, ma, dall’altro, costituiscono un elemento di normalizzazione e di controllo sociale. Le feste in cui si collocano questi “rovesciamenti”, infatti, storicamente si trasformano in un tempo liturgico ben definito, che si serve di rituali formalizzati per controllare e normalizzare la trasgressione. Non a caso, ai giorni nostri, il Carnevale, festa pagana irriducibile alla liturgia cattolica, è tuttavia, nel calendario, posta a ridosso della Quaresima: un breve tempo di gozzoviglie seguito da un lungo tempo di penitenza.
Già nel tardo Medioevo, infatti, si era sviluppata l’idea che la follia fosse tentazione, “madre dei vizi”, e il folle, perduto lo statuto sacro che lo aveva caratterizzato nell’antichità, diventò il rappresentante del demoniaco e dell’oscurità: occorreva perciò liberarlo dal male, in qualche modo esorcizzarlo. La dicotomia spirito – corpo, consolidatasi in quel tempo, imponeva come primo atto, nei confronti del diverso, dell’irregolare, l’intervento riparatorio sul corpo guasto, e perciò incapace di far esprimere lo spirito, facilmente conducendo alla tortura e all’eliminazione fisica del malcapitato.
L’arte del tempo racconta, per immagini, che la follia è la sorgente della perdizione, e ricorda all’uomo di fuggire dai vizi e dalle pulsioni animalesche; nelle favole morali le bestie leggendarie e mostruose simboleggiano le regioni oscure e temibili dell’animo umano e la bestia diventa la creatura, figlia del peccato e di questo insensato mondo terreno, dalla quale l’uomo deve guardarsi volgendo lo sguardo verso il cielo, come nella fiaba “La Bella e la Bestia”, dove solo l’amore può salvare il principe mutato in animale come punizione per i suoi peccati.
Con l’età moderna, si riduce la tolleranza verso il disordine rappresentato dai folli e le nuove utopie cinquecentesche sono depurate dagli elementi dell’irrazionale e del bizzarro, essendo frutto di una ragione che ha ormai rotto ogni legame con la follia. Il clima della Controriforma, il razionalismo trionfante e la nuova etica borghese vincono di fatto la battaglia contro la follia.
Si inaugura l’epoca che segna la nascita dell’internamento, ovvero la segregazione coatta del folle in luoghi deputati a isolare e nascondere tutte le diversità e le irregolarità che la società non vuole non solo integrare, ma nemmeno vedere: malati mentali, ma anche visionari, storpi, vagabondi, bestemmiatori, invalidi, dissoluti, prostitute, omosessuali, poveri. Misto di carcere, ospedale e monastero, le case dei matti o asili per lunatici, si diffondono in tutta l’Europa: luoghi drammatici di isolamento, abbandono, crudeltà e abusi, dove gli internati diventano oggetto di sperimentazione dei trattamenti, spesso inumani, a cui la medicina dell’epoca attribuiva virtù terapeutiche o anche solo correzionali, nella ferma e diffusa convinzione che ci sia una colpa nella diversità.
Con il XVII secolo la follia come esperienza umana autentica viene così disconosciuta, cancellata dal mondo, nascosta, imprigionata; il suo linguaggio viene ridotto al silenzio e a essa è imputata la responsabilità dell’errore intellettuale, del non rifarsi alla retta ragione, della devianza che diventa stigma e marchio infame di una colpa che si connota infine come colpa morale.
Come scrive Michel Foucault nella sua “Storia della follia nell’età classica”, c’è una progressiva presa di potere autoritario da parte di una cultura totalizzante, di un pensiero unico, che ha caratterizzato la società occidentale nel suo tentativo di schiacciare una diversità, che altro non è se non un lato indesiderato della società medesima, col risultato di negare così la propria stessa natura.
Occorre arrivare agli anni Settanta del Novecento per assistere all’opera titanica ed encomiabile di Franco Basaglia, fondatore del concetto moderno di psichiatria terapeutica e riabilitativa, con l’apertura dei manicomi.
Non è questa la sede per un approfondimento sullo stato della psichiatria e della salute mentale ai giorni nostri, ma, per tenere il filo del discorso, non si può nascondere che, nonostante il superamento della logica della negazione sottesa all’internamento, la follia continua a interrogarci in quanto elemento inestirpabile dall’esistenza dell’uomo, parte della sua stessa essenza e, anche se temuta, braccata e annullata, irriducibile nel proporre la sua realtà “altra” e diversa.
L’arte, in tutti i tempi, è il vero universo del folle, uomo che non ha patria in questo mondo, come non è di questo mondo la sua verità, ma la sensibilità e l’immaginazione possono consentirgli di esprimere un punto di vista originale e alternativo, libero da condizionamenti sociali; ecco che allora il folle diventa di nuovo personaggio, figura letteraria, maschera, genio e porta con sé tutto il suo corredo di significati e valenze. Una collocazione tutto sommato rassicurante anche per i “normali”, poiché il binomio creatività – follia, o, se preferite, genio – sregolatezza, coniato dal Romanticismo, consente da un lato di immaginare una follia orientabile a un esito socialmente apprezzato come l’opera d’arte, dall’altro di giustificare la propria mediocrità e assenza di creatività come conseguenza di una salute mentale intatta.
In realtà, creatività e disagio mentale non sono necessariamente due volti della stessa medaglia, e non bisogna cadere nello stereotipo del genio un po’ matto o dell’artista maledetto. È vero però che diversi studi dimostrano un’associazione tra la genialità di una mente dotata di originalità, fluidità, pensiero divergente, capacità di ragionare fuori dagli schemi, e una maggiore propensione a sviluppare disturbi psichici. Tuttavia i disturbi psichici sono di molteplice natura, pertanto non si può generalizzare: chi soffre delle forme maniacali più gravi può essere meno capace, se non del tutto incapace, di generare creatività rispetto a chi soffre di forme più leggere.
Insomma, per essere creativi bisogna essere folli, ma non troppo. Solo un leggero tocco di maniacalità. Quella che, probabilmente, abbiamo tutti, solo che tendiamo a nasconderla perché la nostra cultura non favorisce ciò che è diverso, al contrario preferisce l’omologazione e il conformismo, più stabili, più rassicuranti. Forse, dovremmo imparare a concederci di essere anche irregolari, eccentrici, di aprirci alla bizzarria e alla stravaganza, come capacità di essere autentici e veri, perché, in fondo, nessuno di noi è del tutto normale, ammesso che la normalità esista. E allora teniamoci strette le nostre stramberie, siamo atipici e unici e, come suggerisce Michel Foucault, sviluppiamo la nostra legittima stranezza.
Tu prova ad avere un mondo nel cuore
E non riesci ad esprimerlo con le parole
E la luce del giorno si divide la piazza
Tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa
E neppure la notte ti lascia da solo
Gli altri sognan sé stessi e tu sogni di loro
(Un matto – Fabrizio De André)
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