Il Libro della gioia perpetua


“Il libro della gioia perpetua” di Emanuele Trevi, edito da Rizzoli nel 2010, è un libro fuori dal comune, un appassionante gioco di scatole cinesi incentrato sulla scoperta di un altro libro, quello, appunto, della gioia perpetua, in realtà nient’altro che un quaderno a quadretti, in cui, con la grafia di una bambina di otto anni, si raccontano le avventure di Clara e Riki, del gatto Mosè e dello zio Roby, nel paese immaginario di Lossiniere, durante un magico inverno di neve.

La storia ha inizio quando il protagonista del romanzo, lo scrittore Emanuele Trevi, si reca in treno da Roma a Napoli per tenere una conferenza su “Etica e letteratura” alla biblioteca di Santa Volpina; l’evento salta a causa dell’emergenza rifiuti che assedia la città, ma la circostanza gli fa conoscere la gentile signora Mastellone, anziana ed enigmatica maestra che, prima di lasciarlo al suo viaggio di ritorno, gli consegna una busta contenente un manoscritto e una lunga lettera di accompagnamento di suo pugno.

Il manoscritto è in realtà un plico di fotocopie di un quaderno infantile che, una volta letto, inaspettatamente coinvolge il protagonista in un’avventura interpretativa capace di mettere in crisi il suo quieto equilibrio psicologico e intellettuale, trascinandolo lungo i sentieri della memoria, a riscoprire il significato della scrittura e dei sentimenti e persino la felicità dell’amore.

Come in un gioco di specchi che si riflettono l’uno nell’altro senza fine, o in quello della matrioska, che ne contiene sempre un’altra di minore dimensione fino alla più piccola possibile, verità e invenzione stanno assieme su queste pagine senza confondersi. La storia del quaderno, della sua scoperta, della sua lettura, della sua interpretazione, è resa più appassionante dalle rivelazioni della donna che lo consegna a Trevi, contenute nella lettera di accompagnamento.

Le vicende immaginarie di Clara e Riki si intrecciano così con la storia di Chiara detta Saigon, la piccola autrice del manoscritto, un giorno inspiegabilmente scomparsa insieme alla sua famiglia, e con quella della signora Mastellone, come lei stessa spiega nella sua lettera, raccontando di amori, amicizie e dolori del tutto personali. Le storie intrecciate avviano nel protagonista un viaggio iniziatico per «distinguere tra ciò che è profondo e ciò che è torbido», verso «una vita felice», verso «la serenità», che «se è un privilegio, è anche una specie subdola e perniciosa di follia».

Il protagonista nonché autore, afflitto da una sorta di narcolessia che lo fa vivere in «un’imitazione di una vita normale», sviluppa il suo racconto tenendo come base il quaderno di Saigon, che legge e commenta con l’arguzia di uomo colto e gran lettore di testi di psicanalisi, e inserisce nella vicenda molti elementi autobiografici e così Emanuele Trevi, nel suo racconto, interpreta sé stesso, avvertendo, nelle piccole comuni avventure di Riki e Clara, un senso nascosto, collegato a entità indefinibili di natura benigna capaci di aiutarlo a uscire dall’angoscia e dal vuoto che lo opprimono, consentendogli, a fine lettura, di trovare qualcosa che assomiglia alla felicità.

In realtà, nel manoscritto non c’è, in apparenza, niente più dei consueti piccoli eventi di una vita infantile, e le vicende che possono rientrare nell’orizzonte immaginativo di una bambina di otto anni, eppure il protagonista ne percepisce uno straniante «vuoto centrale» entro cui cade: forse è il libro, forse le molte coincidenze che poi si sommeranno, ma è come un passaggio iniziatico attraverso uno specchio.

L’energia delle novantasei pagine a quadretti, del resto, aveva già colpito non solo la maestra Mastellone, che aveva avuto Saigon, la piccola autrice, tra le allieve della sua classe, ma aveva coinvolto, come racconta lei stessa nella sua lettera, soprattutto suo marito, il professor Lucchesi, coltissimo e appartato esperto di mitologia e studi esoterici, un vero iniziato, punto di riferimento per molti noti studiosi europei. Di cosa è dunque fatta la forza magnetica, l’energia di latenza di quel quadernetto che inchioda ora Trevi e già aveva stregato Lucchesi e la moglie? E perché è stato scelto proprio lui per indagare su quel manoscritto infantile, dopo che era apparso su una rivista femminile un suo racconto, dedicato alla vicenda, autobiografica e inventata al tempo stesso, di un amore adolescente, intitolato “La noce”? Cosa collega “La noce” e il libro di Clara e Riki?

Il lettore potrà scoprirlo, via via che leggerà di Clara e Riki, della piccola autrice Saigon e della sua singolare famiglia, della storia della Mastellone, del marito Lucchesi e delle sue indagini di una intera vita, fin da quando era un repubblichino di Salò, sui miti e culti arcaici dei morti, e del racconto di un amore ginnasiale tra Emanuele, scrittore e protagonista, e l’evanescente Lydia dai capelli rossi, una storia in cui una noce, pegno di memoria, sparisce senza lasciare traccia.

Alla fine, seppure c’è un compimento e tutti i segni sparsi sembrano acquistare senso, non c’è un segreto da scoprire. Nel corso della narrazione, nell’incastro di storie differenti, entrano in gioco la simbologia pittorica di Salvator Rosa, il mito di Orfeo ed Euridice e molte altre citazioni dotte; ma quello che resta al centro è innegabilmente il libro di Clara e Riki, con tutto il fascino della sua fresca assenza di mistero e tutta la sua potenza ammaliatrice: perché «non c’è nulla al mondo di più incerto, reversibile, soggetto alle insidie del tempo» della «felicità dell’amore», e «l’approssimazione più convincente allo spirito, al tono dominante dell’opera della piccola Saigon» è proprio la gioia perpetua, perché il quaderno suggerisce «che la natura più intima della vita corrisponde a una condizione di appagamento, felicità senza minacce, reciproco amore», e a questa «specie di verità» si può arrivare soltanto col cuore, non con la testa.

Così, la lettura delle avventure di Clara e Riki diventa quasi una meditazione, la coscienza di quel che può esserci nascosto dall’inconscio, una sottile dialettica tra consapevolezza e ironia, tra discernimento e gioco, tra realtà e fantasia.

“Il libro della gioia perpetua” è un romanzo avvolgente e intenso, che racconta innanzitutto di un sentimento dell’immediatezza, che indaga i legami che possiamo chiamare abbandono all’altro, oppure amore, amicizia, che si verificano quando si sta assieme come inseparabili, come luce e ombra.

“Il libro della gioia perpetua”, come il quadernetto di cui racconta, è un mezzo per scivolare verso quell’abbandono, atto d’amore, gesto d’ascolto, dove lettura e scrittura hanno il potere di trasformare la vita appena la rivelano, esse stesse copie del reale, come Clara e Riki e tutte le altre storie che diventano una storia sola, illuminanti eppure sempre inafferrabili.

“Il libro della gioia perpetua” è un’opera di grande creatività, ricca di originali intuizioni e di spunti di introspezione personale, un invito a cogliere i dettagli della vita, dove sempre si annida quello che cerchiamo, anche se non ha ancora un nome preciso.

La prosa di Trevi è coinvolgente, delicata, ricca, quasi poetica. È una scrittura piacevole, ma impegnata e impegnativa, a tratti pesante, per la complessità dell’intreccio, per i numerosi approfondimenti e perché l’autore ci apre le porte del suo personale mondo interiore, messo costantemente sotto attenta analisi, lasciando emergere il taglio psicanalitico anche quando sembrano prevalere leggerezza e divagazioni.

Un romanzo molto originale, ben costruito, complesso, impossibile da classificare in un genere specifico, in cui, alla ingarbugliata concatenazione delle storie che si intrecciano nella narrazione, sempre si accompagnano i commenti e le interpretazioni dell’autore. Un libro impegnativo, in cui è alto il rischio di perdersi, ma anche quello di restare impigliati, fino all’ultima pagina, nella ragnatela delle connessioni e dei riflessi che hanno la seduzione unica dell’indagine sulla natura del nostro vivere.