Rosella Postorino sceglie di partire da una vicenda vera: il bombardamento dell’orfanotrofio di Bjelave a Sarajevo, il successivo trasferimento in Italia dei bambini, inizialmente per un periodo limitato, e la decisione, infine, di dare in affido o in adozione alcuni di questi ragazzini, senza verificare se i genitori fossero sopravvissuti alla guerra e ne attendessero il ritorno in Bosnia. Perché non tutti erano orfani: alcune famiglie avevano visto nell’orfanotrofio l’unico modo di dare uno spiraglio di speranza ai propri figli. Una storia di infanzia negata sullo sfondo della brutale guerra di dissoluzione dell’ex-Jugoslavia, combattuta negli anni ’90 del Novecento.
Nada, Omar, Senadin e Danilo sono i quattro ragazzini di cui seguiamo le vicende, prima a Sarajevo, nell’orfanotrofio dove i primi tre sono ospitati, poi dalla partenza in pullman fino all’arrivo in Italia. Un viaggio della speranza, che porta a ognuno di loro una lacerazione inguaribile, il trauma dell’abbandono, del rifiuto e dello sradicamento, e l’impossibilità di raccontarlo. Danilo viene costretto a dividersi dalla famiglia, che rimane in Bosnia, Nada deve lasciare il fratello Ivo chiamato al fronte, Omar non fa che pensare a quella mamma già molto assente prima della guerra, che, durante una delle sue rare visite all’orfanotrofio, gli è stata strappata dalle braccia dallo scoppio di una granata e della quale non sa più nulla, pur continuando a credere, dentro di sé, che sia ancora viva, a dispetto di quello che gli dicono tutti, a cominciare dal fratello più grande Senadin.
Per qualcuno il viaggio in Italia è una possibilità, la speranza di una vita migliore, per altri è l’ennesimo segnale di una vita che ti scarta, che non ti vuole, per qualcun altro ancora è un’amputazione, un castigo insopportabile, la privazione di quel brandello di possibilità di ritrovare l’amatissima madre, nonostante la costanza del suo non esserci per i suoi figli. Omar non vuole l’Italia, non vuole quella larva di futuro che non gli appartiene e resta ostico e diffidente, chiuso e oppositivo.
All’arrivo in Italia, i ragazzi vengono smistati in strutture d’accoglienza gestite da suore più o meno tormentose, e devono affrontare la difficoltà che comporta lo sradicamento in una terra straniera: essere minori soli, poveri e rifugiati. E ognuno di loro combatterà a modo proprio, con le armi a sua disposizione: con il rifiuto a oltranza, anche a costo della propria libertà, con l’accettazione e la consapevolezza di non avere nulla da salvare se non il proprio futuro, con il coraggio di amare, con la paura di non essere mai abbastanza e con la forza di non soccombere al danno del non-amore, dell’amore mancato.
In teoria, per i ragazzi dell’orfanotrofio bosniaco, il soggiorno in Italia avrebbe dovuto costituire una soluzione temporanea, una parentesi, ma così non è; e quando Omar e Senadin vengono affidati a una coppia italiana, le loro reazioni sono opposte. Senadin, docile e desideroso di integrarsi, inizia presto a chiamare Mari e Matte «mamma» e «papà»; Omar invece si ostina a considerarli degli estranei, e non perde occasione per dimostrarglielo. Danilo, che vive come un traguardo ambito la relazione con una ragazza italiana, non potrà sottrarsi al destino di disgregazione che toccherà la sua famiglia, mentre Nada rifiuta le prospettive di affido, preferisce rimanere insieme alle educatrici e alle suore, con cui pure non lega più di tanto; poi diventa grande, diventa madre. E quella è la sua speranza di futuro.
In qualche modo le vite dei quattro resteranno per sempre intrecciate, legate a doppio filo dalla mancanza, da un dolore sordo che li accomunerà anche quando prenderanno strade diverse. In qualche modo per sempre uniti, ma sempre divisi tra due terre, due vite, due lingue, due identità.
Il romanzo, parte dal 1992-1993 e arriva al 2010-2011: seguiamo perciò i protagonisti, che all’inizio della storia hanno tra i dieci e i quattordici anni, per un ventennio, dall’infanzia-preadolescenza fino all’età adulta. I capitoli sono intercalati da brevi inserti in corsivo che, con tono lirico-drammatico, raccontano episodi di guerra segnati dalle atrocità più abiette, non direttamente inerenti alle vicende dei protagonisti, e di cui solo nelle ultime pagine si chiarirà l’origine.
“Mi limitavo ad amare te” si inserisce a pieno titolo nel filone, ormai dilagante nella produzione letteraria italiana contemporanea, del lutto e del dolore a tutto campo, come se il racconto della sofferenza fosse misura di pubblicabilità e presumibilmente incentivo alle vendite, filone di cui non sono, evidentemente, un’entusiasta estimatrice. Certo, le brutture della vita, come le cattive notizie, attirano facilmente l’attenzione del pubblico, ma il rischio che l’enfasi patetica sfugga al controllo dell’autore è molto alto, insieme alla tentazione di vincere facile, spremendo al lettore quella lacrimuccia che lascerà un ricordo “emozionante”, termine passepartout, buono a celare qualunque vaghezza di giudizio.
In questo romanzo, Postorino, in fatto di dolore, ha proprio calcato la mano: non bastava l’orrore di una guerra, la lacerazione della separazione forzata dalla propria terra e dalla propria storia, ma, dei quattro protagonisti, soltanto Danilo, prima degli eventi bellici, poteva vantare una famiglia presente, e soltanto lui viene allontanato dai genitori unicamente nel tentativo di salvarlo. Omar, Senadin e Nada, al contrario, pur non essendo orfani, hanno già vissuto il trauma del disamore e dell’abbandono, lasciati in istituto da padri inesistenti e madri dedite ad altro. E sia chiaro da subito che, anche per Danilo, tutto andrà comunque per il peggio, poiché, a guerra finita, dovrà fare i conti con la drammatica e irrimediabile dissoluzione della sua famiglia.
All’inizio i protagonisti sono poco più che bambini, e il tema centrale è la disperazione di non essere amati, di essere abbandonati e lasciati soli; questo tema è poi aggravato dai fatti di guerra, ma è preesistente e ha un valore universale e trasversale rispetto al racconto, che dedica al suo approfondimento e al collegato rapporto del legame madre/figlio un infinito numero di pagine dolenti. Di più, direi che il tema è trasversale a tutta la vicenda e gli strascichi di dolore che i quattro ragazzi portano nelle loro vite adulte è molto più legato alle lacerazioni familiari, che non allo sradicamento e all’orrore della guerra.
Un adulto che scrive per altri adulti una vicenda di bambini si mette in una posizione molto difficile, inevitabilmente rischiando a ogni riga di attribuire ai suoi protagonisti un pensiero da grandi o di cedere alla melassa dell’enfasi patetica, davanti all’infanzia negata. Mi pare che Postorino, quando i protagonisti sono ancora bambini, non abbia evitato riflessioni e pensieri adultizzati, tipo «l’amore non è mai totalizzante», per dire quello che mi è rimasto più impresso. Quanto al patetismo, ce n’è a piene mani in ogni pagina, anche quando, dopo la guerra, i protagonisti sono adulti, e si narra dei loro tentativi, più o meno disperati o felici, di dar senso alle proprie vite; ma all’autrice, più che le vicende reali che capitano nelle loro esistenze, interessa la tormentosa elaborazione interiore, sempre riconducibile alle ferite dell’infanzia e ai legami familiari, come in una faticosa e infinita terapia.
Pagina dopo pagina, si rafforza l’impressione che l’enfasi drammatica sia un mezzo per suscitare commozione e orrore. In particolare, colpiscono gli inserti in corsivo che, con una sorta di lirismo formale, propinano elenchi di atrocità e frasi a effetto, mentre il loro significato nella narrazione, svelato soltanto alla fine e comunque fragile, ne accentua il carattere pretestuoso e posticcio, che appesantisce il racconto e conferma l’idea che siano messi lì soprattutto per suscitare il nostro sgomento.
In conclusione, un libro ridondante, troppo lungo, a tratti ripetitivo; un tono troppo melodrammatico, con eccessiva enfasi sulla sofferenza; un finale troppo sbrigativo, dopo tanta lentezza, con colpi di scena un po’ grossolani; un linguaggio troppo studiato, che spesso tradisce la ricerca della parola o della frase a effetto.
Per “Mi limitavo ad amare te”, mi sembra particolarmente azzeccata la formula «Less is more». La qualità di un’opera letteraria non dipende solo da ciò che viene detto, ma anche da ciò che viene taciuto; il lettore, se coinvolto, capirà benissimo, interpretando i silenzi. E questo mi pare particolarmente vero quando si vuole raccontare l’orrore della guerra.
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