Quaderno proibito


Quando pubblica “Quaderno proibito”, nel 1952, Alba De Céspedes ha già pubblicato, tra l’altro, “Nessuno torna indietro”, il romanzo che nel 1938 le era valso, ex aequo con Vincenzo Cardarelli, la vittoria al Premio Viareggio, poi annullata dal regime fascista. Contro quell’opera, che proponeva un’immagine femminile assai diversa dall’angelo del focolare, si era infatti scatenata la propaganda del regime, che accusò il romanzo di essere in contrasto con «la politica demografica, la politica della razza, l’esaltazione della famiglia, il culto delle tradizioni, i premi matrimoniali, i premi demografici, la protezione della maternità e dell’infanzia» (Piero Pellicano).

Anche se “Quaderno proibito” esce nel 1952 e l’idea femminile del fascismo dovrebbe essere solo un ricordo, la mentalità corrente non è migliorata di molto, così il nuovo romanzo viene accolto con diffidenza, considerato scomodo e, nonostante l’enorme successo di pubblico, fatica ad avere altro riconoscimento se non quello, paternalistico, di opera di una scrittrice che «discorre, da donna, di donne, saggiando la propria sensibilità su temi e personaggi che era in grado di conoscere e quindi assegnandosi dei limiti e muovendosi dentro di questi con una coscienza sicura di sé» (L. Gigli, sulla quarta di copertina dell’edizione Mondadori del 1959). Insomma, una donna, capace di buona scrittura, che scrive piccole faccende di donne.

In verità, l’opera rappresenta proprio il passaggio difficile e sofferto da una scrittura “da donne” a una scrittura per tutti, che accompagna il lettore in un’esperienza di indipendenza e di ribellione, narrata da una donna, è vero, ma che riguarda, in realtà, anche il suo compagno di vita: un anelito di libertà, trattenuto dal troppo senso di responsabilità e dalla paura di quel che si vorrebbe realmente. Per entrambi i coniugi, a dar voce a questo bisogno indicibile, è il tentativo di espressione artistica: la scrittura di un diario per lei, la stesura di un improbabile soggetto cinematografico per lui.

«Ho fatto male a comperare questo quaderno, malissimo. Ma ormai è troppo tardi per rammaricarmene, il danno è fatto»: con queste parole inizia il suo diario Valeria Cossati, la protagonista, una donna della classe media nell’Italia degli anni Cinquanta. Poco più di quarant’anni, due figli grandi, un marito disattento, nata in una famiglia altolocata, a cui le vicende belliche hanno fatto perdere tutto, è costretta, per necessità, a un lavoro d’ufficio, che svolge senza apparente passione. Il lavoro, all’inizio degli anni ’50, viene visto come fonte di vergogna per una donna, in quanto significa che il marito non è in grado di mantenere la famiglia, e ha bisogno dell’”aiuto” della moglie, ma, per quanto confusamente, Valeria sembra apprezzare quella libertà e quell’indipendenza che le sue amiche casalinghe sono lontane anche solo dall’immaginare.

Naturalmente, si dà per scontato che Valeria, oltre al quotidiano lavoro d’ufficio, sbrighi da sola tutte le incombenze domestiche, che toccano unicamente a lei: è quello che si aspettano il marito e i figli e, in fondo, lei stessa non mette in discussione questa insostenibile organizzazione familiare, che le risucchia ogni possibile energia e, quel che è peggio, le nega qualsiasi, anche piccolo, spazio per sé stessa, si tratti di un luogo in cui isolarsi, o di un tempo da dedicarsi.

Ingabbiata in questa istituzione totale che è per lei la famiglia, Valeria è assorbita dal ritmo “naturale” della quotidianità piccolo-borghese, schiacciata, senza quasi rendersene conto, tra i suoi ruoli di moglie, madre, impiegata. Un giorno però, seguendo un impulso inspiegabile, acquista un taccuino su cui comincia ad annotare fatti minuti e riflessioni. Si crea così, finalmente, lo spazio proibito di una scrittura a cui si dedica di nascosto, principalmente la notte, felice di quel brivido di libertà, ma timorosa di essere scoperta, col senso di colpa di sottrarsi, anche se per poco, alla abnegazione totale che il mondo si aspetta da lei.

Scrivendo, Valeria scopre i conflitti sotterranei che pervadono la sua esistenza, le aspirazioni frustrate, i risentimenti nascosti; dà voce a una vita interiore da anni sopita, esprime una propria individualità, una precisa coscienza rivelata dai gesti e dai pensieri della vita quotidiana. Tramite le figure della madre, ferma alla visione nobiliare di fine Ottocento, e della figlia, giovane progressista, Valeria rappresenta il crocevia del suo tempo, dandoci la plastica percezione di quel periodo di trasformazione epocale rappresentato dal secondo dopoguerra, diviso tra la voglia di cambiare e la paura di non sapere più chi si è, attraversato dalla vertigine di una nuova libertà, eppure oppresso da un conformismo sociale che sembra immutabile.

Anche Michele, il marito di Valeria, è alle prese con la sua inquietudine; segnato dalla guerra, è obbligato, al suo rientro da reduce, ad accettare un lavoro in banca che non lo soddisfa e sotto cui cova un bisogno inespresso, che la routine familiare fatica a contenere e che finisce per incanalarsi in una confusa aspirazione artistica, alimentata dall’incoraggiamento superficiale di Clara, attrice avvenente e libera, amica di giovinezza di Valeria. Ma il cinema è un mercato come gli altri: nessun produttore vede nel soggetto di Michele un buon affare, il sogno sfuma, come la prospettiva ingenua di guadagni favolosi; e la coppia entra in crisi: Michele si infatua di Clara, Valeria si innamora, ricambiata, di Guido, il suo elegante, affabile, malinconico e ricco direttore.

In “Quaderno proibito” la riflessione sulla condizione femminile non avviene soltanto all’interno del quadro familiare, ma diventa occasione per ripensare i valori tradizionali; la dimensione femminile, storicamente esclusa dagli scenari pubblici dell’economia, della guerra, del potere, e reclusa nel recinto del privato, diviene postazione privilegiata per osservare la solitudine e lo scontento dell’uomo moderno, il deteriorarsi dei ruoli convenzionali, l’esplosione del conflitto sociale, la mercificazione dell’esistenza, i cui semi venefici sono piantati proprio negli anni Cinquanta.

Anche il rapporto genitori/figli è narrato con prospettiva più vasta di quella strettamente familiare. Riccardo, il figlio maggiore di Valeria e Michele, è il portatore della vecchia mentalità: studente universitario saccente, maschilista e fragile, vagheggia di un promettente impiego oltreoceano, ma si adatta presto a un piccolo futuro rassicurante in seno alla famiglia d’origine, alla notizia dell’inattesa gravidanza di Marina, la fidanzata melensa e inetta della quale millanta, coi genitori, virtù inesistenti. La figlia Mirella, invece, rappresenta la donna del futuro, studentessa brillante, emancipata, inquieta, si lega ad Alessandro, un avvocato divorziato all’estero, che la ama come donna e la stima come professionista.

La dimensione sessuale attraversa come una metafora sotterranea l’intera narrazione, senza mai uscire del tutto allo scoperto: ma è proprio la diversa concezione della sessualità che diventa la cifra del conflitto fra Valeria e la figlia; e il soggetto cinematografico di Michele, che rimane inaccessibile alla moglie, è rifiutato dal mercato per la portata trasgressiva del contenuto, che lo rende poco vendibile al grande pubblico.  

Marito e moglie dunque scrivono per esprimere la propria verità, ma Valeria non sa niente del soggetto di Michele e Michele non sa niente del quaderno di Valeria. La scrittura assume quindi il ruolo di terapia, di mezzo per interrogarsi su ciò che si vuole veramente, su quel che si è oltre al ruolo che è stato definito per noi. E, per entrambi, la scrittura finisce per rivoltarglisi contro: il soggetto verrà respinto, il quaderno sarà bruciato, portatori entrambi di una verità insopportabile. Tanto Valeria quanto Michele sono personaggi in cerca di un’identità nuova, che nella vita reale stenta a prendere corpo e nella scrittura prova allora a trovare una forma che la rappresenti. Il fallimento della scrittura identifica, per entrambi, la metafora del loro fallimento esistenziale.

Alla fine, Valeria non riuscirà a liberarsi dalle catene di una vita che non la soddisfa più e, abbandonando e distruggendo il diario, si riconsegna alla fredda e faticosa quotidianità, si sacrifica ancora una volta, probabilmente in modo definitivo, ponendo una pietra sui suoi desideri. La mentalità che la circonda e di cui è impregnata, miete dunque un’ennesima vittima; ma l’autrice, acutamente, non fa di lei un’eroina; al contrario, ci mostra senza sconti quei tratti di un femminile deformato che suonano particolarmente odiosi a un lettore moderno, come il sospetto che la fidanzata del figlio l’abbia raggirato con la gravidanza per farsi sposare o l’accoglienza della stessa in casa, nonostante i disagi oggettivi, con l’esplicito proposito di estrometterla, facendo di sé e del figlio i veri e soli genitori del nascituro. Deviazioni moralmente inaccettabili, frutti avvelenati della stessa cultura che priva Valeria della capacità di desiderare e decidere per sé stessa, deformazioni che contaminano le donne stesse, anche quelle più avvedute, che finiscono per farsi complici del sistema che le tiene schiave.

Una lettura scorrevole, capace di evocare, con la semplicità del quotidiano, temi immensi su cui riflettere. Consigliato a chi ha la sensibilità per comprendere e la curiosità di capire da dove arrivano gli schemi dentro ai quali, ancora oggi, arrancano i passi avanti della condizione femminile e di un’idea di libertà che riguarda uomini e donne.