Quinto piano


Come se qualcuno mi avesse chiamato, spalanco gli occhi di colpo e automaticamente allungo la mano verso la sveglia, la stacco, la guardo e mi dico brava, Emilia, ce l’hai fatta anche stavolta; è una piccola scommessa con me stessa, cerco di precedere la suoneria, così lascio in pace chi può dormire ancora un po’. Quando ci riesco, la mattina comincia bene. Mi concedo solo qualche secondo, poi, senza sollevare troppo le coperte, per non disturbare Alberto che russa placidamente, scivolo fuori dal letto e sono in piedi. É tutto buio. Quando attacco presto al lavoro, mi tocca questa levataccia, ma, in compenso, per le due ho finito, così posso andare a prendere i bambini a scuola, passare al supermercato, preparare con calma la cena: la serena soddisfazione delle mie giornate.

L’incontro allo specchio è piacevole, come rivedere una vecchia amica a cui voglio molto bene. Certo, ho il viso stropicciato dal sonno e nemmeno a diciotto anni sono stata una vera bellezza, però mi piaccio, gli occhi chiari di mio padre, il naso perfetto di mia madre, sono la più alta della mia famiglia, poteva andare peggio, non posso lamentarmi. Mi lavo con l’acqua fredda, mi tiro su i capelli con l’elastico e comincio a imbacuccarmi: verrà un’altra bella giornata di settembre, più tardi, ma adesso è ancora buio e l’aria è quella fredda della notte. Inforco la bicicletta e comincio a pedalare; l’auto la prende Alberto, che porterà i bambini a scuola e poi andrà al lavoro. A parte il freddo, la bici mi piace, finisco di svegliarmi e metto in moto i muscoli; a quest’ora non c’è nessuno in giro, si va ch’è una bellezza, c’è un silenzio strano, la città è ancora addormentata.

Sono operaia presso la Splendor, insomma faccio le pulizie, ma non mi lamento: la ditta è solida, il titolare, il signor Esposito, è una brava persona, la paga è quel che è, ma è sicura, mi versano regolarmente i contributi e per Natale ci danno anche un piccolo fuori busta e poi l’orario, come ho detto, posso gestirmelo, certo, compatibilmente con le esigenze dei cantieri, ma va bene così. Avrei potuto avere di meglio. Sì, qualche volta ancora me lo dico, ma capita sempre di meno.

Padre ferroviere, madre casalinga, non ce la passavamo male, ma, quando avevo tredici anni, per uno strano scherzo del destino, sono arrivati i gemelli; mia madre ha pianto per tutta la gravidanza e a mio padre sono venute delle rughe in fronte che non gli avevo mai visto. Giocoforza, ho dovuto diventare grande in fretta, mi hanno iscritto alla scuola superiore, ma a un indirizzo professionale, per finire prima. È stato un peccato, perché ero brava davvero. Poi, improvvisamente, la malattia di papà, la sua morte nel giro di qualche mese, la depressione di mamma, i miei fratelli ancora bambini, i soldi che non bastavano mai. Dovevo lavorare, e in fretta.

Quando sono andata a colloquio con la Splendor, persino mia madre, che pure aveva tanto insistito perché mi cercassi un posto, mi disse di non essere precipitosa. Invece a me piacque subito; il signor Esposito fu gentilissimo e mi chiese se preferivo lavorare negli appartamenti privati o nei cantieri più grandi, capannoni industriali, garage, condomini; mi colse di sorpresa, non mi aspettavo una domanda del genere; scelsi i cantieri grandi, mi dissi che pulire le case delle persone mi sarebbe sembrato come entrare nelle loro vite, la naturale curiosità avrebbe potuto diventare invadenza o anche invidia e io non volevo. Non mi sono mai pentita.

Arrivo in sede in perfetto orario; l’Adele, che lavora in coppia con me, è già qui; il tempo di buttare giù un caffè orribile della macchinetta, che ormai, per l’abitudine, mi sembra quasi buono, e poi prendiamo l’auto della ditta e ci avviamo al primo cantiere della giornata. Guida lei, io mi rilasso due minuti con la nuca sullo schienale e penso, soddisfatta, che oggi è giovedì, e il giovedì è il mio giorno speciale.

Con Alberto ci siamo conosciuti per caso e ci siamo piaciuti subito; è più grande di me di sei anni che, all’inizio, parevano tanti e invece adesso non più. Comunque, fin da allora, era un tipo solido, che dava sicurezza, riservato, simpatico, persino belloccio. Caporeparto in una fabbrica importante, da subito voleva fare sul serio, mettere su famiglia e questo mi conquistò, anche se non era quello che avevo in mente a quel tempo. Il nostro è sempre stato un amore tranquillo e io non desideravo niente di più, poi sono arrivati i bambini, che adesso vanno a scuola e sono la mia gioia, e quando mi guardo allo specchio o penso alla mia vita, sono contenta di me e di quello che io e Alberto abbiamo costruito: la casa di proprietà che era il nostro sogno, anche se col mutuo ancora da pagare, la macchina, le vacanze. Faccio le pulizie, è vero, ma non mi manca niente e le cose, alla fine, sono andate come dovevano andare.

Non tolgo niente a nessuno se alle volte sogno. Non è una cosa che cerco, che inseguo, però, se succede, non posso mettere il bavaglio al cervello; e, in fondo, che male c’è, è una cosa solo mia, di cui avrei vergogna a parlare con chiunque, è il mio piccolo segreto, che non fa male a nessuno e colora un po’ certe giornate noiose. E poi sono innocente, lo giuro, perché non ho fatto assolutamente niente per avere questo pensiero, anzi l’ho cacciato mille volte, ma ritorna, cocciuto, e allora mi dico che non ho alcuna colpa, che sono troppo severa, che un gioco, in fondo, posso pure concedermelo.

A viale Ariosto si va al giovedì, dopo aver fatto gli uffici dell’ingegner Della Casa e associati, che si sbrigano in un paio d’ore. A viale Ariosto parliamo di un palazzo superlusso, dove facciamo le scale e i pianerottoli, l’interrato che è più pulito di casa mia, e poi tutte quelle vetrate nell’atrio e ai piani, che devono sempre essere lustre e non importa se ci va un’ora in più, l’amministratore del condominio è stato chiaro, i soldi non sono un problema, quel che conta è il risultato. L’Esposito era a dir poco eccitato e si capiva che voleva far bene a tutti costi, così ci ha fatto un sacco di raccomandazioni la prima volta, di lavorare a puntino e tenere la bocca sempre chiusa, che nessuno deve accorgersi di noi; e ha mandato l’Agata Salerno, sua moglie, a controllare il lavoro, anche se lei di solito sta in ufficio e si occupa dei turni del personale e sui cantieri non ci vuole andare, che lo faceva da giovane e adesso invece è la padrona. Comunque più avanti si sono messi tranquilli, di me e dell’Adele si possono fidare che gli facciamo fare bella figura e così, per noi, è diventato l’appuntamento più atteso della settimana, non solo perché puliamo nel pulito e facciamo poca fatica, ma anche perché nel bello si sta bene tutti. Si sa.

L’avvocato Francesco Speri Guizzardi l’ho visto, la prima volta, dopo un paio di mesi che avevamo iniziato a lavorare a viale Ariosto, ormai quasi due anni fa. Ma allora non conoscevo il suo nome; scendeva a piedi, mentre io lustravo il corrimano del terzo piano e mi ha salutato per primo, con un bel buongiorno educato, non quei saluti indifferenti, biascicati a mezza bocca, no, proprio un saluto vero, che mi ha colpito. Un bell’uomo elegante, più verso i cinquanta che i quaranta, ma portati bene, cappotto di cachemire, sciarpa di seta, alto, i lineamenti fini, il naso dritto, gli occhi azzurri, un ciuffo ancora biondo e mosso che gli dà un’aria romantica, un po’ da artista e poi la cartella di cuoio regolamentare, non uno di quei ridicoli zainetti che adesso sfoggiano i professionisti più alla moda, e che li fanno sembrare dei ragazzini malcresciuti che hanno perso la via per la scuola. No, lui era proprio un signore. Aveva un odore buono, leggero, non di dopobarba da supermercato, non so, un odore come di legno verde. Vuoi mettere il fascino di uno in giacca, cravatta e cartella di cuoio? Io la penso così. E perciò, curiosando ogni volta un pochino, senza farmi accorgere neanche dall’Adele che non deve sospettare niente, ho scoperto che abita nell’attico che occupa l’intero quinto e ultimo piano, e ha quella magnifica terrazza che si vede anche da giù; ho verificato che sul campanello c’è solo il nome suo, ho scoperto che ha uno studio legale molto noto in città, con sede in centro, a via dell’Unità d’Italia, in quella palazzina liberty che fa angolo con la strada stretta di cui non ricordo mai il nome, dove un tempo c’era la pescheria. Insomma, un posto di lusso. Altro non sono riuscita a sapere, neanche sui social l’ho trovato, del resto non mi pare il tipo.

Con Adele ci siamo divise le scale, così il quinto piano è sempre mio, però non mi faccio mai trovare lì, non voglio certo rendermi ridicola. Verificato che esce sempre verso le nove, faccio in modo di incontrarlo regolarmente, ma sempre in punti diversi, come se fosse del tutto casuale e poi, quando è uscito, vado su ad annusare l’aria del suo pianerottolo, della sua porta blindata, dello stuoino in fibra naturale che deve costare un occhio della testa e mi immagino come deve essere uscire a cena con lui, andare insieme in vacanza, magari essere stretta dalle sue braccia. E poi? E poi basta, non sono mica matta. Mi piace pensarci, tutto lì, e mi preparo a incontrarlo ogni giovedì; se il mercoledì sera Alberto mi viene vicino e vuole fare l’amore, gli dico stasera no, facciamo domani. Non so perché, ma, in fondo, cosa conta? Va bene così.

Non mi faccio bella per il giovedì, figuriamoci, mi sentirei ridicola, lui non mi guarda neanche, cioè, sì, mi guarda, e mi saluta, a volte sorride, ma non mi vede veramente, non credo. Però è emozionante lo stesso. Comincio con le vetrate e guardo l’ora, mancano cinque minuti alle nove, si apre la finestra temporale del nostro incontro settimanale e inizia l’attesa. Ma qualcosa non va, i minuti scorrono e lui non arriva. Mi sento sciocca, ma comincio ad agitarmi. Che sia partito? Mi pare strano, è stato assente per tutto agosto, ora è settembre, il mese di ripresa del lavoro, non può essere in vacanza, e allora? Cerco di concentrarmi sulla vetrata, ma sono distratta. Che vuoi sapere, mi dico, che vuoi sapere della sua vita, potrebbe avere dormito fuori, essere in viaggio o forse già in studio per un impegno di prima mattina. Sciocca, pensi a lui come fosse un amico, ma non è così, non ne sai niente e niente devi saperne, smettila e fa’ ciò che devi. Mi sforzo, lo giuro, ma non ce la faccio e allora salgo le scale fino al quinto.

E qui il mio cuore smette di battere, perché la blindata è aperta e il battente è solo accostato. Una vocina dentro la testa mi dice di andarmene, di farmi gli affari miei, di non mettermi nei guai, ma la tentazione è troppo forte. Mi avvicino, esito, non so cosa fare, poi spingo piano la porta. «È permesso? C’è qualcuno? È permesso? Avvocato, è qui? C’era la porta aperta…» Intanto sono entrata e ho fatto qualche passo, c’è silenzio, sembra che non ci sia nessuno. Ripeto: «È permesso? È permesso?» Niente. Allora mi guardo intorno e resto incantata. Sono in un salone grande come una palestra, tutto bianco, col parquet chiaro, una parete tutta vetrata che dà sul terrazzo, un divano grande come due letti matrimoniali, uno strano mobile che dev’essere un camino moderno, uno schermo TV che pare un cinema e intorno sento il suo odore dappertutto, quel profumo di legno verde che ormai riconosco. Continuo a chiedere permesso e intanto avanzo verso le altre stanze, la curiosità sta prendendo il sopravvento. Sulla soglia della cucina, che è grande come l’intero mio appartamento, tutta acciaio e verde chiaro, mi viene un dubbio; una volta ho sentito che, se si trova la porta aperta, vuol dire che sono passati i ladri, o, peggio, che potrebbero essere ancora lì. Esito un attimo poi ricomincio: «C’è qualcuno? È permesso? Avvocato? C’è qualcuno in casa?» Nessuno risponde. Non sento presenze, sono quasi sicura che la casa è vuota.

Il mio stomaco è tutto in subbuglio; dovrei uscire e finire il mio lavoro, sono preoccupata perché Francesco non è passato (sì, lo ammetto, dentro di me lui è di solito solo Francesco, più raramente l’avvocato) e sono in ansia per questa porta trovata aperta, ma l’occasione di vedere dove vive, di respirare l’aria che respira, di sbirciare per un momento nel suo mondo, quando mi ricapita? Così continuo l’esplorazione; voglio vedere il suo bagno, dove fa la doccia, di che colore è il suo accappatoio; voglio vedere dove dorme, aprirò i suoi armadi e respirerò il profumo delle sue camicie, aprirò i suoi cassetti, che mi immagino perfettamente ordinati, e annuserò la sua biancheria, le calze, le maglie, i fazzoletti. Persa nelle mie fantasie, arrivo sulla soglia della camera da letto e qui mi porto la mano davanti alla bocca per non urlare.

Ma allora sono veramente passati i ladri! Mentre il resto della casa è lindo e lustro, qui regna il caos: il letto è disfatto, la cabina armadio (enorme, non c’è bisogno di dirlo) è aperta e anche la cassettiera: sembra che sia passato un ciclone, tutto è gettato alla rinfusa sul pavimento, come fosse stato frugato e poi lasciato lì. Pantaloni, giacche, camicie, calze, mutande, cravatte, ma anche libri, fotografie e…orologi…ma non è possibile, i ladri non lasciano gli orologi a meno che non siano falsi…sto per chinarmi a terra per guardare meglio, incuriosita, quando mi viene in mente CSI, la serie poliziesca in TV e d’istinto mi dico che non devo lasciare le mie impronte, non devo toccare niente, anzi devo andarmene di corsa da qui, prima che mi incolpino di chissà che cosa, come minimo furto con scasso della porta! In un attimo sono nel panico, certo, già me lo immagino: daranno la colpa a me, la donna delle pulizie che ha approfittato dell’occasione, scopriranno che ho ancora il mutuo da pagare, che ho cercato Francesco sui social, penseranno che studiavo il colpo, l’Esposito mi ucciderà. Mentre l’ansia mi invade e non so più cosa fare, sento dei passi, penso Dio mio, sono perduta e resto impietrita, senza potermi muovere di un passo.

«Gabrielle! Gabrielle! Amore mio dove sei?! Gabrielle!» Francesco arriva camminando a grandi passi e barcollando come un ubriaco, la faccia stravolta, lancia grida strazianti da pazzo, roteando gli occhi intorno come se dovessero uscirgli da un momento all’altro dalla testa. Quando è sulla soglia della camera, si ferma e si zittisce di botto, poi si copre la faccia con le mani e scoppia a piangere. Sì è proprio lui, è il mio Francesco, è entrato gridando come avesse perso il lume della ragione e adesso, seduto sul letto sfatto, sta veramente singhiozzando come un bambino e ripetendo piano quel nome francese, che ha tutta l’aria di essere un nome di donna. Del resto solo una donna può portare un uomo a una disperazione così. Sono annichilita per questa apparizione e ancora impietrita per il panico di poco fa. Ma la cosa incredibile è che non sembra essersi accorto di me, non ha chiesto chi sono e che ci faccio qui, non ha detto nulla del disordine e dei mobili frugati, l’unica cosa che gli interessa è questa Gabrielle, che continua a invocare con voce spezzata. Neppure nota che c’è un’intrusa nella sua camera da letto e sembra dare per certo che i ladri non c’entrano niente, come se sapesse cosa veramente è accaduto qui.

Lo ammetto, mi si stringe il cuore e l’istinto prende il sopravvento. Mentre singhiozza senza vergogna, raccolgo da terra un fazzoletto da naso (non posso evitare di far caso che è ricamato con le sue iniziali), poi mi siedo sul letto vicino a lui e gli tocco piano un braccio. «Avvocato, avvocato, si calmi, prenda questo» sussurro. Devo insistere e ripetere la frase più volte, finché finalmente sembra accorgersi di me, si gira, afferra il fazzoletto e solo allora mi vede, e il suo sguardo si fa lievemente interrogativo.

«Mi chiamo Emilia, sono la donna delle pulizie, ho visto la porta aperta, mi scusi se sono entrata, ma temevo che si fosse sentito male o che fossero passati i ladri.» Mi guarda con gli occhi stralunati, le mie scuse non gli interessano. «I ladri, i ladri,» ripete con tono febbrile, «magari fossero stati i ladri,» grida, «magari, e invece è stata lei, lei se n’è andata, Gabrielle, Gabrielle, cosa ti ho fatto amore mio, perché te ne sei andata? Perché sei così arrabbiata?» I singhiozzi coprono di nuovo le parole e continua a ripetere quel nome, immerso nella sua disperazione. Non posso crederci, ma si lascia andare sulla mia spalla e piange senza ritegno.

Dovrei scappare, uscire da questa casa e da questa storia che non c’entra niente con me, dovrei avere il coraggio di guardare quest’uomo annientato che non ha più niente di affascinante, è solo un poveraccio che soffre per amore, nonostante la sua bella cartella di cuoio, gli abiti eleganti, l’odore di legno verde e il salone grande come una palestra. Dovrebbe farmi pena e forse anche un po’ ridere, in fondo non mostra una grande dignità, non si comporta come un uomo. Ma cosa dico? La verità è che provo tenerezza e decido di assecondare il mio istinto. Cerco di calmarlo almeno un poco, senza prendermi troppa confidenza e poi mi alzo, devo avvertire l’Adele, che a quest’ora si chiederà dove sono sparita. Poi tornerò su a consolare l’abbandonato. E chissà, potremmo conoscerci, diventare…amici? Non pensare sciocchezze e sbrigati, mi sgrido; ma interrompere questo momento di vicinanza un poco mi dispiace. Mi stacco da lui ma non vorrei. Farò in fretta. Lui cerca di trattenermi. «Non mi lasciare, non mi lasciare anche tu» biascica tra le lacrime, patetico.

Adele la trovo al primo piano e le spiego in due parole l’accaduto, senza rivelare nulla dei miei pensieri su Francesco, ovviamente, ma lei sente puzza di bruciato e fa un sacco di domande, mentre io voglio solo sbrigarmi, sento che non ci saranno altre occasioni e, anche se i miei sentimenti sono molto confusi, adesso voglio seguire l’istinto e tornare da lui. Quando finalmente le estorco la promessa di coprirmi con l’Esposito, dietro giuramento di restituirle il favore alla prima occasione, imbocco la scala e faccio i gradini a due a due; arrivo su col fiatone e mi fermo un attimo davanti alla porta, aperta come l’ho lasciata.

Entro e lo vedo in terrazzo, sta fumando, appoggiato alla balaustra; mi avvicino con un sorriso, ha ancora il viso arrossato, ma sembra più calmo. «Vedo che sta meglio,» dico, un po’ meravigliata per il rapido cambiamento d’umore, ma lui mi fa cenno di tacere col dito sulle labbra e mi accorgo che ha l’auricolare, sta telefonando. Sono basita. Quanto sono stata con Adele? Massimo cinque minuti. È possibile passare dalla disperazione alla normalità in cinque minuti? Il grillo parlante dentro di me dice di girare i tacchi e uscire di qui. Ma sono troppo confusa, non voglio crederci, esito. In fondo il ruolo della consolatrice non mi dispiaceva.

Intanto lui chiude la telefonata e mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Non piange più, ha un’espressione strana. «Hai detto che sei la donna delle pulizie?» «Sì, ho visto la porta aperta e…» «Allora sei assunta, cominci subito con quel casino che c’è di là, e poi tutte le settimane, quando vieni a pulire le scale ti fermi anche qui, ti pagherò bene…» D’improvviso mi ronzano le orecchie e non lo sento più. Non è possibile, non voglio crederci. Resto lì impalata come una stupida, finché lui mi fa cenno con gli occhi, come dire perché sei ancora qui, sbrigati, puoi cominciare. Cosa dovrei fare adesso? Essere scortese con un inquilino di viale Ariosto? Rifiutare? Mandarlo al diavolo? Non posso permettermelo. Dovrò parlare col signor Esposito, che contratterà la paga al posto mio e io non ci guadagnerò niente, il danno e la beffa. Ma intanto, come sonnambula, faccio di sì con la testa e mi avvio verso la camera per riordinare. Al resto penserò quando sarò più lucida. Ed eccomi qui, che raccatto calze, camicie e giacche dal pavimento, così frastornata che ancora non so se ho capito bene che cosa è successo.  Sognavo un amore e ho trovato un secondo lavoro che non volevo; e di questa casa, che solo un’ora fa fantasticavo di visitare, e di chi la abita, mi toccherà scoprire anche gli aspetti più intimi, quelli che avrei preferito non conoscere mai. Già sta sbiadendo il fascino dell’avvocato. Dev’essere senz’altro una punizione divina, e ben mi sta, così imparo a sognare a occhi aperti. Peccato non poterci ridere su con mio marito. E neanche con l’Adele.