Nel 1376 a Palermo, una donna si trova davanti a una commissione di giudici. È ormai anziana e malferma sulle gambe e non sappiamo perché è stata chiamata a comparire, ma avvertiamo subito la modestia e, nel contempo, la determinazione con cui si rivolge ai suoi interlocutori e racconta la sua storia seguendo il filo della memoria.
Nella Catania del 1302, dove ebrei, musulmani, arabi e cristiani vivevano quasi in pace e dove si parlavano mille lingue e dialetti diversi, una bambina vide la luce in una notte di pioggia e di presagi, perdendo la madre che morì di parto. Fu chiamata Virdimura, un nome legato alla sacra liturgia della natura, che richiama la forza delle mura che circondano la città e la grazia tenace del muschio che vi cresce sopra.
È cresciuta con tenerezza e lungimiranza dal padre, il maestro Urìa, chirurgo e guaritore dei mali del corpo e della mente, ricco di sapienza esperienziale e medico stimatissimo dai suoi pazienti, ma vittima ideale dell’invidia di colleghi meno competenti ma più avidi e di una malevolenza diffusa, capro espiatorio perfetto nei momenti difficili per la comunità, inviso ai sacerdoti ebrei perché non osservante del complicato sistema di regole e divieti che vorrebbero imporgli, e altrettanto detestato dai cristiani perché ebreo; è spesso destinatario di provvedimenti vessatori, multe e restrizioni della sua attività, ai quali si assoggetta con mansuetudine pur sapendosi innocente.
Urìa è invece venerato e amato da coloro che cura e guarisce con la chirurgia, con i rimedi medicamentosi, con la compassione e la gentilezza. Un approccio alla professione medica appassionato e colto, che privilegia la scienza e l’ascolto dei sofferenti, alieno da brame di profitto e da qualsiasi pregiudizio.
Virdimura cresce dentro il mondo del padre, mentore affettuoso e instancabile, e apprende a utilizzare i rimedi che possono dare sollievo ai sofferenti, ma anche ad ascoltare, osservare, interpretare i sintomi. Gli insegnamenti sono a volte troppo complicati per lei ancora bambina, ma la sua avidità di apprendere ed emulare Urìa la introduce precocemente nel mondo della medicina che non vorrà più lasciare. È un’infanzia in simbiosi con l’amato padre ma, per il resto, solitaria, dove l’apprendimento sostituisce il gioco, donando lo stesso piacere.
Rimasta sola dopo la scomparsa di Urìa, che avviene in modo alquanto misterioso in una di quelle occasioni in cui la rabbia popolare si scatena nei confronti dei diversi, ritenuti causa diabolica di ogni male, Virdimura diventa grande e indipendente. Si circonda di altre donne, come lei vittime dell’intolleranza e della superstizione, del predominio maschile, del potere religioso, donne che non rispettano i ristretti canoni sociali previsti per loro: peccato gravissimo in una cultura in cui essere femmine è già di per sé qualcosa di cui portare la colpa, e Virdimura ne è ben consapevole.
Insieme a loro inizia a gestire un luogo di accoglienza e cura, un po’ rifugio e asilo, un po’ laboratorio e ospedale, dove mette in pratica gli insegnamenti del maestro Urìa. Per questo viene arrestata, incarcerata in condizioni disumane e interrogata come una criminale per il fatto di svolgere un’attività medica senza avere permessi né titoli, sospettata di meretricio, stregoneria e vicinanza con il demonio, mentre nessuna delle compagne può aiutarla poiché le donne non possono testimoniare.
È dal passato dell’infanzia che riemerge Pasquale, forse l’unico amico avuto da bambina, figlio di Josef, anch’egli dottore, per un breve periodo ospiti a casa di Urìa, in un tempo lontano. Pasquale, fattosi uomo e medico a sua volta, testimonia che Virdimura non è né strega, né prostituta e salva così la donna e la dottoressa, permettendole di continuare a praticare la medicina.
È la protagonista a narrare, insieme alle vicende proprie, quelle di suo padre Urìa, di Pasquale, dell’ospedale in cui si cura ogni tipo di sofferenza. La donna, ormai anziana, si rivolge a un collegio di augusti doctori dai quali deve essere esaminata per ricevere, finalmente, la licentia curandi che, nel novembre 1376, le viene finalmente concessa, con una clausola che le permette di curare soprattutto i poveri.
La vicenda di Virdimura, realmente esistita ma della quale sappiamo poco o nulla, è ricostruita con fantasia e perizia, tessendo una tela di ambientazioni, circostanze, personaggi e usi che riproducono, con grande verosimiglianza, una comunità ebraica nella Sicilia del quattordicesimo secolo, grazie anche a una minuziosa ricerca relativa all’ambiente medico del tempo, ai rimedi, alle cure, alle erbe; il tutto narrato in un linguaggio semplice ma colto, che mescola latinismi medievali e dialetto siculo e contribuisce a ricreare l’atmosfera dell’epoca.
Il lavoro di cucitura tra lo sfondo storico e l’invenzione letteraria è pregevole ed elegante, tuttavia la trama è un po’ piatta e la narrazione, in forma di testimonianza della protagonista davanti al collegio degli augusti doctori, risulta un poco monocorde. Di Simona Lo Iacono ho letto Le streghe di Lenzavacche che ho molto apprezzato per la vivacità creativa e l’originalità strutturale, che non ritrovo invece in Virdimura, lettura gradevole, che però non ho trovato entusiasmante. Sarà che questi romanzi di donne forti costrette a farsi strada contro il mondo mi stanno venendo un po’ a noia: sono protagoniste che meritano il racconto, senza dubbio, ma sono anche storie che si somigliano un po’ tutte.
Va riconosciuto in ogni caso che, sulla base di scarne tracce documentali che attestano l’esistenza di una Virdimura catanese, guaritrice del quattordicesimo secolo, l’autrice ha saputo immaginare la vita di una donna contro corrente, in un racconto fieramente dalla parte degli irregolari, e in particolare delle donne che non rispettano i canoni di rispettabilità del loro tempo; una storia in cui l’umanità è cultura, e la cultura è conoscenza, scienza, studio, dedizione, ma anche apertura all’altro, compassione, accoglienza, spirito critico e gentilezza d’animo.
Tutto condivisibile, a mio parere. Purtroppo, forse mai come in questi tempi in cui vincono l’insulto, la protervia, il dileggio e l’ignoranza, scrivere di valori come l’assenza di pregiudizi, l’integrità, la solidarietà, la competenza e la gentilezza suona desolatamente come la voce che grida nel deserto di biblica memoria. Forse è per compensazione che apprezziamo romanzi con protagonisti che ci piacerebbe incontrare, perle rare nella realtà sguaiata e urlante che ci tocca vivere. Qualcuno dirà che è buonismo a buon mercato o, forse, il vecchio politicamente corretto. Lasciamoli dire. In fondo si legge proprio per poter vivere altre vite.
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